Burt Lancaster, l’irresistibile carisma dell’antidivo

by Orio Caldiron

Quando Burt Lancaster appare per la prima volta sullo schermo in I gangsters (1946) di Robert Siodmak, uno dei capolavori del noir, nessuno sospetta che lo “Svedese”, immobile nel buio della stanza d’albergo in attesa di essere ammazzato, sia l’inizio della strepitosa carriera di uno dei più dotati divi del secondo dopoguerra americano.

L’ultimo grande dell’epoca d’oro di Hollywood – nato a New York il 2 novembre 1913 e scomparso a Los Angeles il 20 ottobre 1994 – viene dal circo dove si è esibito per un decennio come trapezista. Scoppiata la guerra, organizza spettacoli per le truppe in Nord Africa e in Europa. In Italia incontra l’ausiliaria Norma Anderson, che diventa la sua seconda moglie e da cui avrà cinque figli. Sensibile, riservato, irascibile, non accetta intrusioni nella sua vita privata. Sul lavoro si sottrae ai diktat delle major diventando il primo attore-produttore dell’epoca.

Il grande successo popolare arriva con La leggenda dell’arciere di fuoco (1950) di Jacques Tourneur e Il corsaro dell’isola verde (1952) di Siodmak, fortunate rivisitazioni senza rete del cappa e spada in cui l’esuberanza acrobatica del protagonista rifà il verso a Douglas Fairbanks. Nel suo versatile camaleontismo non esita a cambiare registro interpretando il sergente di carriera Warden di Da qui all’eternità (1953) di Fred Zinnemann, il melodramma antimilitarista dove fa scalpore l’abbraccio appassionato con Deborah Kerr sulla spiaggia di Honolulu. Non meno sorprendenti il picaresco vilain di Vera Cruz (1954) di Robert Aldrich, in gara con il fascino intramontabile di Gary Cooper e l’eccentrico camionista di La rosa tatuata (1955) di Daniel Mann che con la sua esagitata buffoneria risveglia i sensi di Anna Magnani. Il giornalista cinico e megalomane di Piombo rovente (1957) di Alexander Mackendrick conferma che il perfezionismo non teme la sgradevolezza.

Nel ’60 l’Oscar premia una delle sue interpretazioni più vigorose, quella di Elmer Gantry, lo scatenato predicatore di Il figlio di Giuda di Richard Brooks, che nel suo istrionismo svela l’ambiguità delle sette religiose nell’America di fine anni venti. L’intensa fisicità del corpo atletico, il magnetismo dello sguardo, la mimica espressiva del volto s’impongono in una vivacissima galleria di personaggi, tra cui spiccano il giudice compromesso con il nazismo di Vincitori e vinti (1961) di Stanley Kramer, l’ergastolano ornitologo di L’uomo di Alcatraz (1962) e il generale golpista di Sette giorni a maggio (1964), entrambi di John Frankenheimer. Sul set di Il Gattopardo (1963) riesce a capovolgere l’iniziale diffidenza di Luchino Visconti nella partecipe identificazione con il principe di Salina, malinconicamente presago della fine del suo mondo.

Nella foltissima filmografia dei decenni seguenti, che vanta titoli importanti di qua e al di là dell’oceano, il suo congedo dal grande cinema coincide con Atlantic City, Usa (1980) di Louis Malle, dove l’anziano gangster dall’oscuro passato si illude di poter essere almeno una volta protagonista, sullo sfondo di una città al tramonto. Senza mai svelare il suo segreto. Forse aveva ragione Visconti: “A volte penso che Burt sia l’uomo più misterioso che io abbia mai incontrato”.

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