Deborah Kerr, la diva che capovolse ogni cliché

by Orio Caldiron

Non bisogna mai fidarsi dei cliché. Dopo tanti stereotipi sul più bello la diva cambia personaggio, mandando all’aria le convenzioni dello star system. Sensibile discreta elegante, la scozzese Deborah Kerr – nasce a Helensburgh il 30 settembre 1921 e scompare a Suffolk il 6 ottobre 2007 – nel suo altalenante percorso d’attrice sembra perfetta per le suore, le lady, le governanti che lo schermo le affida fino a che non s’incrina lo strato di ghiaccio e si lascia tentare dalla passione.

Nel cinema degli anni quaranta, dopo gli inizi precocissimi nella danza e nel teatro, si afferma in patria con Duello a Berlino (1943) e Narciso nero (1947), entrambi di Michael Powell e Emeric Pressburger, come il prototipo della bellezza britannica, sospesa tra abbandoni romantici e trattenute rimozioni. Se nei primi titoli del lungo soggiorno hollywoodiano rischia di far tappezzeria accanto a Clark Gable (I trafficanti), Stanley Granger (Le miniere di re Salomone), Robert Taylor (Quo vadis?), Marlon Brando (Giulio Cesare), la svolta decisiva della sua carriera risale a Da qui all’eternità (1953) di Fred Zinnemann, alla “scandalosa” scena d’amore sulla spiaggia hawaiana con Burt Lancaster, dove la coinvolgente sensualità scioglie l’algida aura british della diva dai capelli rossi.

Nei decenni successivi s’impone per la versatilità con cui passa dalla commedia al melodramma, dal musical all’avventura nei suoi ruoli più memorabili, che sono spesso i più ambigui. Come la smaliziata vedova di Il re ed io (1956) di Walter Lang, che conquista l’arcigno sovrano del Siam, lo scatenato Yul Brynner. La moglie del preside di Tè e simpatia (1956) di Vincente Minnelli, che si prende cura dell’allievo sospetto gay, nel clima soffocante del college. Suor Angela di L’anima e la carne (1957) di John Huston, naufragata con il marine Robert Mitchum in una sperduta isola del Pacifico. La complessata stilista di moda di Bonjour tristesse (1958) di Otto Preminger, che non sopporta il tradimento di David Niven. La timida zitella di Tavole separate (1958) di Delbert Mann, ossessionata dalla madre invadente. La milady decaduta di L’erba del vicino è sempre più verde (1960) di Stanley Donen, pronta al colpo di testa senza rinunciare alle buone maniere. L’irreprensibile governante di Suspense (1961), smarrita tra i fantasmi osceni del castello. La casalinga frustrata di I temerari (1969) di John Frankenheimer che sedici anni dopo ritrova sulla propria strada Burt Lancaster ma la scintilla non scocca.

Sta a sé Un amore splendido (1957) di Leo McCarey, struggente epopea della coppia alle prese con il proprio destino. Deborah Kerr – intensa, immateriale, recita come respira – dopo la folgorazione del primo incontro sulla nave ha un appuntamento con Cary Grant tra sei mesi sull’Empire State Building. Nella tipica commedia neoromantica degli anni novanta come Insonnia d’amore è il cult movie che, tra un singhiozzo e l’altro, Meg Ryan vede e rivede di continuo. Quasi un risarcimento per le sei nomination e nessun Oscar, tranne quello per la carriera assegnatole nel 1994.

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