Julie Christie, l’icona della generazione della minigonna

by Orio Caldiron

Julie Christie si afferma con Darling (1965) di John Schlesinger, dove rende irresistibile la figura della cinica mannequin che gettandosi indietro i lunghi capelli biondi passa da un letto all’altro mentre i manifesti con la sua faccia spuntano ossessivamente dappertutto sullo sfondo della Swinging London, tra i fotografi, giornalisti tv, pubblicitari, gallerie d’arte, sfilate di moda, canzoni dei Beatles.

Il film premiato con l’Oscar per la migliore attrice fa di lei l’icona della generazione della minigonna. Il suo volto coincide per milioni di spettatori in lacrime con l’immagine di Lara che in Il dottor Zivago (1966), il kolossal di David Lean, è la struggente incarnazione dell’amore tragico boicottato dalle vicissitudini della Storia, un cult proverbiale citato da Nanni Moretti in Palombella rossa. Appare in un doppio ruolo in Fahrenheit 451 (1966) di François Truffaut che dice di lei: “Julie è un cocktail di appariscenti contraddizioni: un viso con un che di animalesco, da lupa, su un corpo da ragazzino. Il suo profilo è bellissimo. La bocca immensa, larga, vampiresca”.

Sospesa tra Europa e Hollywood, la carriera dell’attrice – nata il 14 aprile 1941 a Chukna, Assan, in India dove il padre amministrava una piantagione di tè – conosce il suo momento magico tra la metà degli anni sessanta e l’inizio dei settanta. Nei film di Schlesinger (Via dalla pazza folla) e di Joseph Losey (Messaggero d’amore), di Nicolas Roeg (A Venezia…un dicembre rosso shocking) e di Hal Ashby (Shampoo), rivela la luminosa bellezza della donna innamorata ma anche la sottile bravura dell’interprete. Senza trascurare Petulia (1968) di Richard Lester, amara commedia british ambientata in una psichedelica San Francisco, dove imprime la sua spavalda energia alle mattane della protagonista. Sta a sé I compari (1971), il western invernale di Robert Altman, in cui disegna il tagliente ritratto di una maîtresse piena di risorse e di segreti accanto a Warren Beatty, a cui per qualche tempo è stata legata. Calore e polvere (1983) di James Ivory le consente di ritornare nell’India dell’infanzia. La sua inquieta femminilità sigla il tuffo nel passato scandaloso di una lady inglese ricostruito molto tempo dopo dalla nipote giornalista quando la contrapposizione tra colonia britannica e civiltà orientale è ancora viva.

Nei decenni successivi si dedica al teatro e all’attività politica contro il nucleare mentre il cinema le offre solo raramente ruoli adatti al suo carattere di donna forte e fragile, anticonvenzionale e imprevedibile. Nel canadese Away from Her-Lontano da lei (2006) di Sarah Polley anima con sobria sensibilità il dramma di un’ammalata di alzheimer. Nel 2007 sposa Duncan Campbell, il giornalista del “Guardian” con cui vive da oltre vent’anni. La sua apparizione più recente risale a La regola del silenzio (2012) di e con Robert Redford, dove è un’irriducibile militante degli weathermen anni settanta non ancora riconciliata con il Sistema. Neppure ora che è soltanto una storia da raccontare. Quasi un fantasma.

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