Kim Novak, la diva che visse due volte

by Orio Caldiron

Sin dalle sue prime apparizioni sullo schermo – dalla dark lady di Criminale di turno (1954) di Richard Quine alla provinciale di Picnic (1955) di Joshua Logan e alla entraîneuse di L’uomo dal braccio d’oro (1955) di Otto Preminger – Kim Novak sembra prendere le distanze dallo stereotipo della sex-symbol in cui i produttori la vorrebbero rinchiudere per rivelare nei suoi movimenti lenti e sinuosi l’esuberanza sensuale e materna del corpo, la fissità dello sguardo ipnotico e dolente di chi, avendo cominciato presto a affrontare le difficoltà della vita, è generosa con quelli che non riescono a farlo.

Figlia di un ferroviere e di un’insegnante di origine cecoslovacca – è nata a Chicago il 13 febbraio 1933 – inizia a lavorare in pubblicità prima di approdare al cinema dove si fa strada fino a diventare una star.

Scritturata dalla Columbia, che vede in lei l’attrice in grado di sostituire Rita Hayworth in declino, si ribella all’arroganza di Harry Cohn, il cinico tycoon della casa, e ottiene i cachet stellari che si è guadagnata sul campo con il successo di Un solo grande amore (1957) di George Sidney. La sua immagine fragile e carnale sigla il ritratto sofferto e contraddittorio di un’attrice del muto, divisa tra l’ambizione della carriera e la tendenza autodistruttiva, in cui in parte si riconosce.

Sul set di La donna che visse due volte (1958), accolta con diffidenza da Alfred Hitchcock, trova la sua grande occasione nel doppio ruolo di Madeleine e di Judy, impegnate in un singolare gioco di specchi che dal feticismo scivola nella necrofilia. Se nell’appassionato pedinamento della donna misteriosa Jimmy Stewart s’innamora dell’eterea bionda platino sottraendola all’esuberante procacità dell’attrice, nella ossessiva ricostruzione del modello originario il processo è capovolto.

Vertigo

Quando decide di plasmare le sembianze della prosperosa commessa rosso-bruna che le assomiglia fino alla riapparizione dell’ombra evanescente in tailleur e chignon, la materializzazione del fantasma allude esplicitamente alla strategia pigmalionica del cinema che di provino in provino dà vita all’immagine artificiale e fuori del tempo della star destinata a entrare nel mito.

Sotto il segno di Saturno, Una strega in paradiso (1958) è la commedia romantica di Quine venata di sognante malinconia dove la donna che visse due volte s’incontra di nuovo con Jimmy Stewart, rinnovando il mito dell’amore fatale. Nel clima di favola della New York coperta di neve, la strega vestita da Jean Louis – una delle sue incarnazioni più clamorose e struggenti tra mosse feline e morbidi sguardi – si accorge ben presto che quando impara a piangere perde ogni potere e gli incantesimi non servono per assicurarsi la felicità.

L’uomo dal braccio d’oro

Nell’inizio degli anni sessanta prima di lasciare il cinema per la tv fa in tempo a apparire in Noi due sconosciuti (1960) e L’affittacamere (1962), entrambi di Quine, confermando le sue qualità di interprete a suo agio sia nel melodramma che nella commedia. La sua carriera si chiude in bellezza con il corrosivo Baciami, stupido (1964) di Billy Wilder. Polly la bomba, la prostituta con il diamante nell’ombelico, irride maliziosamente le ambiguità del matrimonio e le lusinghe del successo.   

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