L’invincibile Bette Davis

by Orio Caldiron

Nel firmamento hollywoodiano nessun’altra attrice si sottrae alle regole dello star system come Bette Davis (nata a Lowell, nel Massachusetts, il 5 aprile 1908 e morta a Neuilly-sur-Seine, in Francia, il 6 ottobre 1989). Il suo singolare magnetismo è estraneo al richiamo sessuale se non addirittura ai canoni convenzionali della seduzione cinematografica.

Non bella, le palpebre pesanti, gli occhi sporgenti, il mento aggressivo, è la ribelle nella società dominata dagli uomini. Nell’asfittica palude delle major, con cui spesso polemizza, sfilano decine di titoli mediocri prima di imbattersi nello straordinario trittico firmato William Wyler, che contribuisce a assegnarle un posto di primissimo piano nella storia della recitazione cinematografica.

Il ballo di gala di La figlia del vento (1938), in cui la capricciosa donna del sud scandalizza la società bene di New Orleans con uno sfacciato abito rosso, decidendo senza saperlo il suo futuro di solitudine. La sequenza di Ombre malesi (1940) dove la gelida moglie del colonizzatore inglese uccide l’amante, mentre la luce bianca della luna sembra inseguirla. Il prefinale di Piccole volpi (1941), ascesa e caduta di una rapace dinastia borghese, quando il marito agonizzante le chiede la medicina che potrebbe salvarlo lei lo lascia morire senza battere ciglio. Sono tre momenti esemplari del melodramma hollywoodiano che squaderna davanti ai nostri occhi l’universo delle emozioni più profonde. La grande attrice vi si conferma come il maggior temperamento tragico dello schermo americano dell’epoca.

Schiavo d’amore

Negli anni precedenti, come in quelli di poco successivi, non mancano i film che rivelano la grinta dell’interprete – da Schiavo d’amore (1934) a La foresta pietrificata (1936) e Le cinque schiave (1937), da Tramonto (1939) a Perdutamente tua (1942) – avviando la galleria di personaggi femminili perfidi, autoritari, sgradevoli, in cui l’intensa forza di carattere contrassegna la coraggiosa modernità della donna di fronte al destino, con lo strepitoso repertorio di occhiate oblique, labbra serrate, gesti insolenti, scatti nervosi e battute taglienti che le è proprio. Nei mélo strappalacrime, le sue testarde ereditiere, acide zitelle, subdole governanti, nevrotiche cenerentole, tutte con la inconfondibile piega amara della bocca, animano i percorsi conflittuali del woman’s film dove lo sguardo femminile ruba la scena agli uomini.

Nel dopoguerra il personaggio di Margo Channing di Eva contro Eva (1950) è la sua performance più clamorosa e struggente, mentre incalzano i volti nuovi dell’Actor’s Studio. Il capolavoro di Joseph L. Mankiewicz, attraverso la metafora del teatro, mette in scena la paura d’invecchiare, i meccanismi del successo, i segreti dello show-business e le paranoie della società americana. Nel 1999, dieci anni dopo la scomparsa dell’attrice, Pedro Almodovar in Tutto su mia madre ripropone alcune magiche sequenze del vecchio film, perché «tre o quattro donne che parlano, si confessano e mentono nel camerino di un teatro, il sancta sanctorum dell’universo femminile», rimandano per lui all’«origine della finzione e della narrazione».

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