Meryl Streep, il virtuosismo della grande trasformista

by Orio Caldiron
Meryl Streep, La mia Africa

Quando tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta si affaccia sullo schermo nessuno scommetterebbe su di lei. Nonostante le precoci lezioni di canto, gli studi accademici di recitazione, le tenaci esperienze teatrali, Meryl Streep non è ancora la beniamina del pubblico accanto a Faye Dunaway, Jane Fonda, Gena Rowlands, le star incontrastate del periodo. Sigourney Weaver, Sissy Spacek, Jessica Lange – nate come lei nel 1949 – sembrano avere più numeri per affermarsi nell’epoca in cui il nuovo cinema americano, dominato dalle star maschili del calibro di Robert De Niro, Al Pacino, Jack Nicholson, non riserva grandi spazi di manovra ai personaggi femminili.

Sigourney, bellissima e implacabile, si guadagna i gradi di tenente sul set misogino di Alien come la donna forte in grado di assicurarsi un posto di primo piano nell’immaginario contemporaneo. Sissy, minuta e lentigginosa, si scatena nel ruolo della studentessa apocalittica di CarrieLo sguardo di Satana in bilico tra fragilità emozionale e superpoteri telecinetici che ne fanno subito un archetipo dell’horror più gettonato dai teenager. Jessica, avvenente e intensa, sigilla con la sua sensualità aggressiva e disperata il fuoco sotto la cenere dell’incubo americano. Senza contare Jill Clayburgh, Susan Sarandon, Diane Keaton che con qualche anno in più si sono già lasciate alle spalle le prime battaglie in cult movie come Una donna tutta sola, The Rocky Horror Picture Show, Io e Annie, altrettanti punti di approdo o di partenza di carriere molto diverse e variamente fortunate.

LA PRIMA PROVA IMPORTANTE

La prova importante in cui s’impongono le sue singolari doti di attrice è Kramer contro Kramer (1979), dove la dolorosa intensità della moglie separata che si batte per l’affidamento del figlio non esclude la puntigliosa efficacia dell’affondo interpretativo in cui il match con Dustin Hoffman pronto a rubarle la scena sostituisce a tratti lo scontro con il marito. Successo planetario al botteghino, la radiografia delle frustrazioni di coppia si apre al disagio dell’universo borghese per concludersi nella scena strappalacrime del dibattimento giudiziario.

Kramer contro Kramer

L’improvvisa popolarità coincide con l’Oscar per la migliore non protagonista e le apre la strada al ruolo più prestigioso dell’inizio decennio che ne fa subito una star.  Quello di Sara Woodruff di La donna del tenente francese (1981), in cui la tormentata storia dell’amour fou ottocentesco tra la disinibita governante e il ricco gentleman si alterna alla relazione tra i due attori che la interpretano sul set.  Il fascino del melodramma psicologico s’incontra con la vocazione romantica di Meryl a suo agio nei personaggi di donne inquiete e passionali che nel segno dell’emancipazione femminile coniugano le ragioni del cuore con l’imperativo della libertà individuale. L’interprete che vive la finzione romanzesca fatica a togliersi il costume di scena. Se fino a poco fa era la sofferta icona preraffaellita dell’amore infelice, ora è l’attrice americana bruna e occhialuta che teme di compromettere il proprio equilibrio.

SOPHIE, SCAMPATA AL LAGER

Si prepara già a voltare pagina, a affrontare il personaggio difficile e problematico della profuga polacca di La scelta di Sophie (1982) che, scampata al lager nazista, nella Brooklyn del dopoguerra si dibatte tra gli assilli del presente e i fantasmi del passato. Se non sa scegliere tra l’intellettuale ebreo e il giovane scrittore è anche perché in lei convivono la volontà di vivere con la sfida dell’autodistruzione che si misurano nello straziante corpo a corpo pronto a precipitare nella graduale rivelazione del passato. La sofferta partecipazione dell’attrice, la sua totale immedesimazione nei rovelli esistenziali della protagonista, nel suo dramma di donna e di madre, assicurano al film la forza vibrante della testimonianza. Quando la Academy Award le attribuisce il secondo Oscar, il primo come protagonista, i magazine fanno a gara nel raccontare il dietro le quinte della migliore attrice americana, impegnata durante la lavorazione a ingrassare e a dimagrire secondo copione, a imparare il polacco per ricordarsene nelle sfumature della pronuncia inglese. Nello stesso tempo accanto ai riti maniacali della professionista, affiorano le immagini della sua vita privata, dall’adolescenza nel New Jersey dove è nata in una famiglia benestante al matrimonio con lo scultore Donald Gummer con cui avrà quattro figli, scegliendo di vivere l’assoluta normalità di una vita da diva antidiva nella sua grande casa nel Connecticut.

La scelta di Sophie

Se La mia Africa (1985) rappresenta una delle sfide più alte – quella di annullarsi in Karen Blixen, la grande scrittrice danese che trascorre quasi vent’anni nel Kenya – ci riesce solo in parte. La bravura dell’attrice è fuori discussione, impegnata ancora una volta nel suo acrobatico mimetismo. Ma il regista rema contro, riducendo la vitale esperienza della scoperta dell’Africa a una manciata di belle diapositive di panorami arroventati, maestosi tramonti, abbacinanti controluce. Nonostante lo shampoo tra le rocce della sorgente e Mozart ascoltato in compagnia dei babbuini, la complessità di questa donna fragile e decisa, incantata e curiosa, la magie della sua scrittura sospesa sul mistero della diversità s’intravvedono solo a tratti nel viaggio à rebours nei labirinti del rimpianto per risolversi alla fine nella banalità del triangolo sentimentale.

QUANDO IL MÉLO IMPLODE

Solo dieci anni dopo, I ponti di Madison County (1995) le offre l’occasione di disegnare il personaggio di Francesca Johnson, la casalinga di origine italiana che, sola nella sperduta fattoria dell’Iowa mentre mariti e figli sono lontani, incontra il fotografo Clint Eastwood, jeans con bretellone, Nikon a tracolla, Camel senza filtro in tasca, il sorriso che spunta tra le rughe. Se il film è straordinario nel recuperare il tempo sospeso dell’amore impossibile, i due fuoriclasse sanno cogliere la minima vibrazione emotiva nello spazio angusto della cucina di casa promossa a teatro dell’anima in cui i personaggi si mettono a nudo. Nella cornice di oggi, dove i figli della donna ormai scomparsa sfogliano il suo diario, si riaccende la breve avventura di quattro giorni con la sua anticonformistica lezione di libertà. Solenne come una cerimonia in cui un uomo e una donna s’incontrano e si dicono addio, fino all’epilogo sotto la pioggia battente quando al semaforo l’auto di lei e il furgoncino di lui sono vicini per qualche lunghissimo secondo, un blues suadente e crudele raccontato da due fantasmi che il cinema richiama per un momento in vita.

Con Robert De Niro sul set di Innamorarsi

Nel decennio precedente, ma anche in quello successivo, la trepidante verità della casalinga sovrappeso si allontana sempre di più nelle decine e decine di titoli destinati a esaltare il mito dell’attrice versatile fino all’istrionismo. Sono disastrosi i duetti con Jack Nicholson, con cui si spreca nella commedia tutta vezzi e moine o nel melodramma miserabilista, ma non vanno meglio neppure quelli con Robert De Niro, dove i due mattatori lasciati a se stessi gigioneggiano imperterriti mentre i film naufragano in un mare di melassa. Se si va a caccia di ricorrenze tematiche non c’è dubbio che prevale la famiglia declinata al presente o al passato, nel dramma o nella commedia, tra le mura domestiche o nel plein air degli esterni. Cambiano i registi, ma siamo sempre nel cinema mainstream in cui le storie edificanti di mamma coraggio hanno spesso il piombo sulle ali per evitare il rischio della leggerezza. Non importa che si misuri con i dingo selvaggi che mangiano i bebè, o affronti le insidiose rapide del Colorado piene di gangster, o si ribelli in tunica bianca alla burocrazia dell’aldilà, o s’imbarchi nelle trame complottistiche dell’odiosa senatrice repubblicana, o elabori il lutto per le malattie terminali che si portano via le persone. Sempre più brava, bravissima, nella sua capacità di reggere da sola il fardello ricattatorio del vittimismo doloristico, la vestale liberal del focolare americano, la santa degli impossibili in odore di cauto femminismo si lascia coinvolgere in progetti ambiziosi che si rivelano deludenti, alimentando il sospetto che la grande attrice in attesa della performance sublime si sia convinta nel frattempo a fare il film da sola, assicurando agli spettatori più affezionati la gratificante possibilità di vederla al lavoro, mentre nel regno dell’artificio s’intravede l’ombra di Frankenstein.

SONO MIRANDA PRIESTLY

Non sempre sono fortunati neppure i tentativi di passare alla commedia che si moltiplicano a partire da She-Devil – Lei, il diavolo (1989), curioso braccio di ferro tra la scrittrice di bestseller tutta di rosa vestita e l’acida casalinga in crisi che si risolve in una fiacca caricatura del femminismo. La morte ti fa bella (1992) cartoonizza il corpo degli attori facendo delle star altrettanti manichini disarticolati in grado di allargarsi, schiacciarsi, dilatarsi come fossero Tom e Jerry. Il diavolo veste Prada (2006) risolleva le quotazioni della commediante con il personaggio della dispotica e vampiresca Miranda Priestly direttrice di “Runaway”, modellata sull’Anna Wintour di “Vogue”, che nel numero di gennaio dedica all’attrice la copertina e quattro pagine di elogi. Spadroneggia con grande classe nell’universo della moda in cui dominano il fascino della seduzione e la tentazione mefistofelica di giocarsi l’anima in una fantasmagoria di giacche, gonne, borse, scarpe, stivali, cappelli che fanno status. Nel frattempo si assottigliano sempre di più i confini tra i generi. Si moltiplicano salti temporali e rivisitazioni d’epoca nella forma capziosa dei percorsi paralleli o nella piatta linearità del biopic, in una carriera senza rete in cui ormai può fare di tutto. Sfoderare la grinta della ex hippie che canta e balla sui ritmi degli Abba nel musical (Mamma mia!), impersonare l’editor virginiawoolfiana che organizza la festa di addio per l’amico poeta ammalato di aids (The Hour), indossare i panni e i vezzi di Julie Child per scoprire i segreti della cucina francese (Julie & Julia), diventare grazie all’ossessivo perfezionismo e il make up più evidente del solito una delle più controverse primedonne della politica mondiale (The Iron Lady), affrontare le insidie e le contraddizioni della peggiore cantante lirica della storia che, nonostante le stecche, si esibisci al Carnegy Hall (Florence), barcamenarsi tra le incertezze dell’inesperienza e l’ostracismo maschile prima di assumere il carisma per guidare il Washington Post negli anni più tempestosi della presidenza Nixon (The Post).

The Iron Lady

Naturalmente Meryl Streep può anche non piacere, come all’inizio della carriera il suo provino per King Kong mandò su tutte le furie il produttore Dino De Laurentiis che con la volgarità manageriale da commedia all’italiana si dice abbia bacchettato lo staff urlando: “Ma che m’avete mannato ‘na racchia, questa qua lo scimmione non se la fila proprio pe’ niente”. Può anche sembrare o persino essere antipatica dal momento che la grande trasformista più di una volta ha giocato la carta dell’antipatia, volontaria o involontaria non fa differenza, per dare forza al personaggio del momento. Ma come si può volergliene? Come si può discutere la diva più premiata degli ultimi quarant’anni? Nessun’altra ha collezionato tanti premi come lei, dalle ventun nomination all’Oscar con tre vittorie (la terza statuetta, ancora come protagonista, per The Iron Lady) alle trentuno candidature al Golden Globe con nove vittorie fino all’Orso d’oro alla carriera a Berlino. Senza contare tutti gli altri premi e riconoscimenti importanti e meno importanti, né tutte le pagine a stampa o dei siti web che le sono dedicati ogni giorno dappertutto. Sì, una specie di santificazione mediatica – Roberto Vecchioni l’aveva chiesto direttamente a Dio: “Fammi Santa Meryl Streep” – che può lasciare ammirati e sconcertati, come capita con le grandi attrici circondate dal perplesso amore del mondo che si muove con circospezione attorno al loro piedistallo. Scaramanticamente si ripensa a quello che diceva Lee Strasberg, il guru del Metodo che attraverso la mediazione di Robert Lewis le è stato idealmente vicino ai tempi della sua formazione: “Ecco, c’è un attore. Che vibrazione di vitalità! Che magnifica sensibilità! Però, anche le magnifiche sensibilità e vitalità sono soggette alle leggi della natura. Si diventa leggermente più stanchi, la vitalità e la sensibilità non rispondono più quanto si desidera. Sono esitazioni che affiorano solo ora quando recitare diventa cannibalismo. La carriera dell’attore si manifesta in pubblico, ma la sua arte si sviluppa in privato”.

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