Olivia de Havilland, la dolce Melania di Via col Vento

by Orio Caldiron

Nell’universo maschile dello swashbuckler, tra lo scintillare delle lame e il sibilo delle frecce, c’è posto per la figura femminile solo se dotata di abnegazione.  Non si sottrae alla regola neppure Olivia de Havilland che in Capitan Blood (1935), La carica dei 600 (1936), La leggenda di Robin Hood (1938), tutti e tre di Michael Curtiz dà vita con Errol Flinn a una delle coppie archetipe del cinema hollywoodiano, accontentandosi di essergli accanto e di esibire il suo repertorio di sguardi devoti e di languidi sospiri.

Nata a Tokyo il 1° luglio 1916, si era trasferita a Los Angeles con la madre appena divorziata e la sorella minore. Scritturata dalla Warner, sopporta con disagio le imposizioni dello Studio che la relega in ruoli stereotipati e decorativi. Soltanto la partecipazione a Via col vento (1939) di Victor Fleming le assicura la notorietà internazionale. È perfetta nel personaggio della cugina a cui Scarlett cerca inutilmente di rubare il biondo Ashley. Nei suoi modi sommessi, la dolce Melania è l’angelo della casa che esprime una sofferenza sinceramente vissuta. Esasperata dal comportamento della Warner che prolunga abusivamente il suo contratto, mentre si moltiplicano i successi della sorella Joan Fontaine con cui ha sempre avuto un pessimo rapporto, trascina la major in tribunale e vince la causa.

Nel dopoguerra s’impone con A ciascuno il suo destino (1946), il bellissimo melodramma di Mitchell Leisen dove impersona Miss Norris, la ragazza-madre che in una lunga notte di attesa alla stazione rivive con struggente partecipazione le ansie e i rimpianti della sua vita, fino a quando tra i soldati in permesso rivede il figlio che era stata costretta a dare in adozione, una delle sue raffigurazioni più intense e memorabili, premiata con l’Oscar. Nello stesso anno Lo specchio scuro di Robert Siodmak le offre l’occasione di interpretare due gemelle implicate in un caso di omicidio. Se Ruth, gli occhi bassi, la voce lamentosa, gli atteggiamenti miti da vittima, ripropone il personaggio tipico dell’attrice, Terry, la voce dura e sprezzante, l’aggressività spavalda e crudele, sembra prefigurare territori finora inesplorati: due modalità espressive accentuate dal gioco degli specchi in cui una si riflette nell’altra.

 La sfida continua con La fossa dei serpenti (1948) di Anatole Litvak, dove si muove con sorprendente energia nelle oscure profondità della malattia mentale e nelle clamorose contraddizioni della istituzione psichiatrica. L’ereditiera (1949) di William Wyler sembra farla tornare al cinema in costume dei suoi esordi, ma lo spirito con cui affronta il personaggio di Catherine Sloper, la ragazza ricca ma insignificante che si innamora del rubacuori Montgomery Clift, prima che si riveli soltanto un cinico cacciatore di dote, è del tutto diverso. Finalmente tira fuori le unghie e fa affiorare uno scatto d’orgoglio. Nello splendido finale lo lascia continuare a battere sotto la pioggia alla porta di Washington Square.

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