Robert Mitchum, un cattivo ragazzo a Hollywood

by Orio Caldiron

L’andatura dinoccolata, il passo pesante, il volto sensuale, lo sguardo sonnambolico di chi ha dormito poco e bevuto troppo, Robert Mitchum se ne va il 1° luglio 1997 a Santa Barbara, in California, dopo aver partecipato a più di un centinaio di film.

Nonostante la sua vita sia molto simile a quella della maggior parte dei personaggi che ha interpretato, il cinema non sembra così importante per il ragazzo di origini irlandesi che, nato a Bridgeport, nel Connecticut, il 6 agosto 1917, passa la sua infanzia a scappare di casa.

Abbandonata la scuola a quattordici anni, comincia a girovagare per gli Stati Uniti in autostop o viaggiando sui merci, lava i piatti nei ristoranti, fa lo scaricatore di porto, il minatore, il camionista, il pugile, il buttafuori di night club, il ballerino di lento.

Le catene della colpa

Arrestato per vagabondaggio a Savannah, in Georgia, riesce a fuggire prima di scontare la pena. Macchinista teatrale alla Players Guild di Long Beach, interpreta qualche particina e comincia a scrivere poesie per bambini, sketch di varietà, programmi radiofonici, rivelando la cultura da autodidatta e la sensibilità intellettuale che nasconde dietro la maschera rozza e brutale che gli si attribuisce.

Quando spacciandosi per cowboy debutta nel cinema apparendo in una ventina di western minori, si è già sposato con l’amica d’infanzia Dorothy Spence, con cui rimane fino alla morte. Hanno avuto tre figli, James, Christopher e Trini. Si afferma grazie alla recitazione distaccata, indolente, che gli assicura i ruoli enigmatici e contraddittori che gli altri rifiutano.

Nel ’47, a trent’anni s’impone con tre capolavori come uno degli attori più popolari della nuova generazione, l’ideale portavoce dei giovani americani che avevano fatto la guerra in Europa e nel Pacifico.

Ossessionato dall’immagine di un paio di speroni scintillanti, Jeb Rand, il protagonista di Notte senza fine, il western onirico di Raoul Walsh, non deve combattere solo conto i nemici esterni ma soprattutto i demoni interiori.

La fedeltà ai suoi uomini del sergente Keeley di Odio implacabile di Edward Dmytryk si risolve in una performance fredda e controllata sullo sfondo del difficile reinserimento nella vita civile. Ma la deriva di Jeff Bailey, l’occhio privato di Le catene della colpa di Jacques Tourneur, va ancora più a fondo nella discesa agli inferi di un morto in permesso.

Se sono moltissimi i personaggi, e i titoli, che animano la sua carriera, resta indimenticabile l’Harry Powell di La morte corre sul fiume (1955), l’unico film come regista del grande attore Charles Laughton, che Serge Daney considera “il più bel film americano del mondo”.

Sulle nocche del predicatore psicopatico, con un occhio alla Bibbia e l’altro al coltello, sono tatuate le parole “Love” e “Hate”, a segnalare la disturbante contraddittorietà del misterioso lupo cattivo a cui l’interpretazione grottesca e sopra le righe di Robert Mitchum ha impresso i toni cupi e vivacissimi della favola nera.

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