Silvana Mangano, la divina del cinema italiano

by Orio Caldiron

L’apparizione di Silvana Mangano – nata a Roma il 21 aprile 1930 e morta a Madrid il 16 dicembre 1989 – in Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis – con l’esuberanza fisica del giovane corpo che trabocca dai vestiti e la sfrontata spavalderia dello sguardo malizioso – ha qualcosa di sconvolgente, tale da farla entrare subito nella mitologia dell’epoca, consacrandola come la prima diva del nuovo cinema italiano. Ma il personaggio a cui deve la sua esplosione planetaria l’imbarazza e cerca di farlo dimenticare. Non piace neppure a Dino De Laurentiis, con cui si sposa nello stesso anno. L’aggressivo produttore in ascesa le offre le occasioni giuste per allontanarsene.

Il tentativo di rimozione è esplicito in Anna (1951) di Alberto Lattuada che si affida alla schizofrenica contrapposizione tra la ballerina di night (indimenticabile il numero di “El negro Zunbòn”) e la novizia che lavora in ospedale. Già si annuncia la nuova immagine dell’attrice che in Ulisse (1954) di Mario Camerini è affascinante nei ruoli di Penelope e di Circe, il doppio volto della femminilità, la perfetta incarnazione del teorema della bellezza esotica e terrena, quotidiana e misteriosa. La malinconica Teresa di L’oro di Napoli (1954) di Vittorio De Sica lascia intravedere il forte temperamento drammatico della diva suo malgrado, confermato più in là dalla grintosa Edda Ciano di Il processo di Verona (1963) di Carlo Lizzani, una Silvana inedita, bravissima, soprattutto nella struggente telefonata al padre.

Anna

Nella sua ritrosia di antidiva – alla mondanità preferisce stare con i figli, ricamare al piccolo punto, leggere, viaggiare – Silvana sfugge alle convenzioni. Si diverte a sperimentarsi nella commedia in una sorprendente galleria che va dalla manesca prostituta di La grande guerra (1959) di Mario Monicelli alla sciampista trasteverina di Crimen (1960) di Camerini, dalle mogli bistrattate di La mia signora (1964) alla contadina veneta di Il disco volante (1964) di Tinto Brass e alla ironica borgatara di Lo scopone scientifico (1972) di Luigi Comencini.

La grande guerra

L’incontro più importante degli anni sessanta è quello con Pier Paolo Pasolini che, dopo il surreale La terra vista dalla luna di Le streghe (1967), le offre le grandi occasioni di Edipo re (1967), dove il mito rivive nella ieratica Giocasta, e di Teorema (1968), in cui impersona un’inquieta moglie borghese. All’inizio dei settanta sarà Luchino Visconti a mostrarci come dietro il fruscio di seta della trasognata signora di Morte a Venezia (1971), la madre di Tadzio in cui rivive la madre del regista, ci sia un interprete misurata, sottile, vibrante nel pieno della maturità.

Nel suo ultimo film, Oci Ciornie (1987) di Nikita Michailkov, dove ritrova Marcello Mastroianni il fidanzatino di quarant’anni prima, non ha neppure bisogno di recitare, si limita a entrare nel fotogramma con la condiscendenza di una regina senza scettro. È come prosciugata, sul volto un velo di malinconia. Se ne andrà due anni dopo, travolta da un male incurabile. La scomparsa in un incidente aereo di Federico, il figlio ventiseienne, l’aveva profondamente segnata facendole imboccare da tempo il tunnel senza ritorno della depressione.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.