C’era una volta la fotografia: Minutoli, Marrubi, Naretti e le variazioni monocromatiche

by Alessandra Belviso

Gli scatti in albumina del fotografo Antonio Marrubi che nel 1856 aprì il primo atelier di fotografia in Albania, oggi patrimonio dell’UNESCO per la sua importanza documentaria e storica; la preziosa serie di stampe su carta salata che il barone Alexander Von Minutoli realizzò nel 1853 con l’intento di creare il primo museo virtuale al mondo; le 45 stampe fotografiche di Luigi Naretti riportate dall’Eritrea alla fine dell’Ottocento e ritrovate recentemente nell’Archivio Storico della Biblioteca Antonelliana di Senigallia; e poi dagherrotipi, ambrotipi e cianografie, piccoli capolavori unici e rarissimi che documentano le varie tecniche con cui l’uomo dell’Ottocento ha cercato di soddisfare, dalle origini della fotografia ai primi del Novecento, la sua esigenza di conoscere e documentare la realtà attraverso la fotografia.

La mostra fotografica inaugurata lo scorso weekend a Senigallia nella sede di Palazzo Baviera è uno straordinario racconto per immagini di luoghi, persone e costumi dell’Ottocento ma anche degli stimoli dati dalle possibilità del mezzo fotografico di imprimere per sempre su supporti di dimensioni ridotte la realtà. Curata dal cacciatore di fotografie storiche Serge Plantureux con la collaborazione di Francesca Bonetti, l’esposizione è una delle due mostre promosse all’interno della manifestazione C’era una volta la fotografia promossa da Regione Marche, Comune di Senigallia e Cassa di Risparmio di Jesi.

Il percorso espositivo inizia con una serie di stampe fotografiche su carta salata risalenti all’utopica impresa del barone Alexander Von Minutoli, vissuto a Berlino tra il 1806 e il 1887, di creare, grazie all’invenzione della fotografia, il primo museo virtuale al mondo: la fotografia rese possibile una nuova maniera di concepire la fruizione dell’arte e di diffondere l’immaginario, rendendo il contatto diretto con l’opera originale un momento non indispensabile; André Malraux nel 1947 ne definirà il concetto nel Museo Immaginario e oggi  più che mai ne esperiamo l’esistenza   con la diffusione delle immagini in rete. Ma l’intuizione di utilizzare il mezzo fotografico per diffondere l’arte venne nel 1853 al barone Alexander Von Minutoli dopo l’invenzione del negativo su vetro. Nel 1845 il re di Prussia aveva concesso al Minutoli, grande viaggiatore, industriale e collezionista, una decina di sale nel castello di Liegnitz, in Polonia, per esporre la sua raccolta di opere e gli oggetti d’arte. Ma il trasporto degli originali costituiva un rischio troppo alto, così Minutoli realizzò un corpus di oltre 150 stampe fotografiche di modelli di arti decorative con le quali realizzò l’esposizione nelle sale del castello e che fu chiamato a presentare nell’Esposizione Universale di Parigi nel 1855.

Il viaggio nelle origine della fotografia prosegue con le variazioni monocromatiche, una raccolta di antiche fotografie, dalle origini ai primi anni del Novecento, che il collezionista Serge Kakou ha raccolto da ogni parte del mondo.  Queste immagini, visibili al pubblico per la prima volta, documentano i primissimi esperimenti dello sviluppo fotografico da parte di scienziati, studiosi, artisti e amateur e raccontano scene di vita dell’800 di varie tematiche, dall’addestratore di coccodrilli alla foto di gruppo di bambini. Particolari le due fotografie che ritraggono i fratelli Mongolfiere e dagli stessi commissionate, due ambrotipi, ovvero foto in negativo su vetro che risultano in positivo grazie all’applicazione di uno sfondo ancora più scuro. Unici e rarissimi in quanto utilizzavano un metodo altamente tossico che presto sostituito, i dagherrotipi, che prendono il nome da Daguerre, inventore della fotografia; venivano sviluppati su lastre di rame sensibilizzati con l’argento e poi esposti al sole. I successivi esperimenti vennero fatti con l’albumina e la lastra di rame venne sostituita dalla carta salata.

Piero Marrubi, originario di Piacenza e di fede garibaldina, fu costretto a lasciare l’Italia per motivi politici e si stabilì a Scutari in Albania nel 1850, allora sotto l’impero Ottomano. Nel 1852 aprì il primo studio fotografico dei Balcani e iniziò a documentare la storia albanese ottenendo varie pubblicazioni in riviste internazionali. Nel corso degli anni la voglia, mista a vanità, di farsi ritrarre, contagiò tutti, impiegati, religiosi, gente comune ed eroi popolari.  Questi scatti originali, esposti per la prima volta e conservati nella collezione di Pierre de Gigord, sono ritratti in formato cabinet, sviluppati in albumina e colorati dall’artista con fango e pigmenti naturali, in quanto non c’era la possibilità di reperire infatti tinture ad olio in Albania. Dopo la morte lo studio fotografico fu gestito da suo figli adottivo. Kel Marubi e, in seguito, del suo successore. L’archivio della dinastia Marubi è oggi parte del Museo nazionale di fotografia Marubi e, per la sua vastità qualità e importanza storica e documentaria, è riconosciuto come patrimonio dell’UNESCO.  

Infine le fotografie di Luigi Naretti, un viaggio nelle regioni del Tigrè e della colonia italiana eritrea, fotografate dopo l’occupazione di Massaua nel 1885. Queste opere fotografiche, rinvenute da Leonardo Badioli nell’archivio Storico della Biblioteca di Senigallia, rappresentano un’importante documentazione storiografica della colonizzazione italiana dell’Eritrea, dove Naretti salpò insieme ai cugini Giacomo e Giuseppe che avevano contribuito alla costruzione del palazzo reale del negus del Tigrè.  Naretti in Africa orientale mise in atto il proprio desiderio artistico raffigurando scene di vita quotidiana, attività sociali e religiose delle popolazioni indigene, paesaggi e persone. Con un interesse sicuramente etnografico, come lo scatto che raffigura la folla riunita a mezzogiorno del 27 dicembre per la funzione rituale del Mascal, una cerimonia che combina simbologie e significati cristiani con la precedente religione ellenistica; ma anche con lo scopo di propaganda politica, come nella cruenta foto che ritrae una scena in un ospedale da campo italiano in cui venivano curati gli ascari, ovvero i combattenti eritrei o etiopi mutilati dai ribelli perché avevano aiutato le truppe italiane e poi presi in cura dai soldati italiani.  Anche le fotografie dei ponti e delle infrastrutture costruiti o delle figure femminili avevano l’intento di mostrare una popolazione non solo colonizzata ma civilizzata.

Nella giornata di domenica il percorso espositivo è stato presentato dagli studenti del Liceo Scientifico Meda Lorenzo Falcinelli e Vittoria Ciarmatori che hanno preso parte al Progetto triennale di alternanza scuola lavoro  sulle arti.

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