Dario Molinaro, in ogni ritratto un accumulo di pittura travestita da scultura

by Antonella Soccio
dario molinaro

Lo studio di Dario Molinaro (Foggia, 1985) è una stanza di cose sovrapposte. Di tele, fogli, piccole sculture, idee. Immagini. Una sopra l’altra, senza un ordine apparente, senza cornici o raccoglitori. Niente cassetti e lettere dell’alfabeto. Pittura. La pittura e basta, a volte travestita da scultura, altre pura e dinamica.

Laureato nel 2007 in Decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Foggia, con una tesi in Critica d’Arte, ha sempre avuto fermo in testa ciò che l’arte è, o meglio, ciò che l’arte non è assolutamente e non potrà mai essere: una favola, una narrazione edulcorata, un mondo distante, parallelo a quello in cui siamo, in cui rifugiarsi. Non c’è bisogno di scappare. Neppure nel passato, nelle glorie di ciò che siamo stati e di quel classicismo che conserviamo nella cristalliera per evitare che prenda polvere. Non siamo più soltanto quello. Lo siamo stati, in maniera grandiosa per giunta, ma adesso dobbiamo liberarcene perché ne stiamo abusando. Che poi la nostalgia di cui soffriamo non è uno stato d’animo costruttivo che ci sprona a ripartire da ciò che è andato, ma il sentimento del rivangare, del rimuginare su qualcosa di sterile, morto.

Eppure le percepiamo quelle sensazioni che ci scuotono e ci ricordano ogni giorno che siamo vivi, ora, che ci partono da dentro, dal sangue che pulsa forte nei polsi e nelle tempie. Per Dario l’arte parla di questo. Del sangue e del suo scorrere, del movimento, dell’indipendenza. Come un respiro, l’arte porta all’esasperazione i nostri limiti e ci costringe ad abbandonarli. Come è successo a Dario stesso con Kali Yuga presso il museo civico di Foggia: in mostra c’erano delle carte come prove di annullamento, quasi totale, delle figure e del loro successivo recupero.

Cattura, Dario Molinaro

L’artista racconta di aver vissuto quel momento come un punto di snodo fondamentale per la sua carriera artistica, come se lì, su quelle pareti, avesse inchiodato quello che stava facendo, lo avesse guardato da spettatore e gli avesse urlato contro di smetterla. Non perché non fosse stato importante o non utile. Solo perché doveva essere così e basta. In nessun altro modo. Quelle opere erano diventate sature, a tratti eccessive, ma per lui stesso, non per altri. Statiche. Il rischio che si corre quando si fa arte è mettere radici. Fare la stessa cosa per tutta la vita, per inerzia, perché per chi compra “funziona”. Quando ho chiesto a Dario cosa avesse fatto di quei lavori e dove li tenesse, mi ha detto che li aveva distrutti.

È servito tutto. Dall’altra parte della mostra, infatti, c’erano altri lavori, una rinascita e una nuova consapevolezza, quello che doveva essere fatto per proseguire nella ricerca.

Dietro la casualità dalla quale l’opera d’arte nasce, che poi corrisponde alla “casualità” del pensiero, al suo continuo vagare, quando è sciolto dal ragionamento, senza direzione, c’è un punto di partenza fisso, un’origine comune dalla quale l’artista parte e alla quale ritorna: l’immagine. Di una esperienza personale, l’immagine segnante di un momento storico, di un paesaggio geografico, una parte anatomica scoperta su un manuale, una foto appartenente alla cultura popolare italiana, alla sua declinazione più trash. Forse perché oggi veniamo bombardati ogni istante da immagini, forse perché il pensiero va per immagini, per associazioni continue e collegamenti. E quando ne hai una, fissa, poi se ne aggiungono altre, si accumulano, una sull’altra, si mescolano e creano spessori, moltiplicano le superfici, creano profili, montagne insormontabili per le dita e per la vista, vortici nei visi. Nel corpo no, perché mantiene la sua anatomia integra, perché non può fingere, il corpo, nascondersi e mentire a se stesso.  Dentro ogni ritratto c’è questo accumulo, declinato nella forma del semplice disegno, realizzato perlopiù con i pastelli ad olio, della pittura, con i pastelli e gli acrilici, fino alla simulazione della terza dimensione scultorea, trattata come fosse un tumore facciale, logorante e invadente, inarrestabile nel suo sviluppo, incontrollabile.

Carmelania Bracco

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