Il laboratorio fotografico di Senigallia. Dalla creazione del Gruppo Misa alla svolta linguistica di Mario Giacomelli

by Alessandra Belviso

Senigallia celebra i suoi fotografi in una mostra a Palazzo del Duca

 Noi crediamo alla fotografia come arte. Questo mezzo di espressione moderno e sensibilissimo ha raggiunto, con l’ausilio della tecnica che oggi chimica meccanica e ottica mettono a nostra disposizione, la duttilità, la ricchezza, l’efficacia di un linguaggio indipendente e vivo. Anche con l’obiettivo, infatti, si può trasformare la realtà in fantasia: che è la indispensabile e prima condizione dell’arte…

Era il 1947, in Italia vi era un acceso dibattito sulle funzioni e le estetiche della fotografia e Giuseppe Cavalli si spendeva per innalzarla da mero strumento di documentazione a forma artistica. E fu proprio in questo quadro di controversie tra le accademiche tendenze pittorialiste, la fotografia futurista degli anni Trenta, quella documentarista e le più moderne concezioni del mezzo fotografico quale mezzo per ottenere risultati artistici, che nel 1954 nacque a Senigallia il Gruppo Misa, un’associazione di fotografi che diede un importante contributo al dibattito italiano e fu uno straordinario laboratorio di idee e di sperimentazioni; tra i principali membri del gruppo, oltre a Cavalli che ne fu l’ispiratore, anche Ferruccio Ferroni e Mario Giacomelli.

Senigallia li celebra a Palazzo del Duca in una mostra fotografica che ne indaga le fasi creative e di elaborazione attraverso stampe e prove inedite provenienti dagli archivi di famiglia degli artisti, che rivelano il processo creativo e la maturazione delle idee di questi fotografi   e le modalità attraverso le quali ognuno di loro ha individuato i propri interessi e trovato il proprio linguaggio. L’esposizione, curata da Serge Plantureux con la collaborazione di Francesca Bonetti, rientra nel programma di C’era una volta la fotografia, la manifestazione promossa da Comune di Senigallia, Regione Marche e Casa di Risparmio di Jesi.

Nato a Lucera nel 1904, Giuseppe Cavalli si trasferì a Senigallia nel ‘39 e dedicò tutta la sua vita alla fotografia. La sua ricerca estetica fu influenzata dalla pittura tonale romana, della quale il fratello gemello era esponente; le sue fotografie sono infatti caratterizzate dalla luminosità e dall’assenza di contrasti scuri, dalla purezza delle linee e dall’utilizzo del vuoto, come nella fotografia che ritrae il filo dei panni sospeso da un palazzo ad un altro. Nei suoi scatti c’è grande attenzione per l’aspetto compositivo, ma la sua attenzione per la luce è maniacale: un commerciante di tendaggi racconta di averlo visto per ore fermo davanti alla Fontana delle Oche prima di scattare, ad osservare come il riflesso del sole disegnava le linee delle ombre. Quello che Cavalli cercò di fare con la macchina fotografica fu allontanare la fotografia, che abbia pretese di arte, dal binario morto della cronaca documentaria, come egli stesso scrisse.

Le fotografie di Cavalli esposte provengono tutte dall’archivio di Ferruccio Ferroni, a testimonianza del profondo legame tra i due. Ferroni conosce Giuseppe Cavalli nel 1948 e con lui approfondisce i suoi interessi per la fotografia, divenendo in seguito anche il suo più fedele stampatore. Si dice che la camera oscura di Ferroni fosse come la stanza di un chirurgo: anche se per lui la fotografia era un’attività amatoriale, ebbe un rigore e una purezza delle forme propri di un professionista. Non fotografo ciò che vedo, ma come lo vedo, affermava. Nei suoi scatti operava per astrazione, toglieva l’essenziale di ciò che fotografava per dare uno sguardo alla realtà proprio. E così la foto che raffigura i rami di pioppo in inverno viene intitolata Ricamo, gli ombrelli adagiati capovolti sulla spiaggia sono fiori, la natura viene raffigurata con rigore geometrico che ne stravolge il significato, come nella foto del cactus. Nelle sue forme astratte dalla realtà ci sembra di ritrovare quello stupore della visione che ha infiammato i fotografi dalle origini.

Ma la svolta linguistica si ebbe con Mario Giacomelli, colui che ha esportato la fotografia di Senigallia nel mondo.  Molti fotografi credono che il mero soggetto sia di per sé arte, così come la fotografia venuta bene e giudicata da tanti bella; non facciamo questa confusione, ricordiamo che il bello fotografico non è il bello reale ma una trasposizione sostenuta da uno sforzo di interpretazione – scriveva.Le fotografie di Giacomelli sono riconoscibili per i soggetti che egli sceglieva di fotografare, ma per una nuova lettura e la comprensione della sua produzione artistica, pur ritornando su alcune delle sue più familiari e iconiche immagini, le campagne arate, i pretini, i paesaggi con la neve, le spiagge di Senigallia, la mostra propone un’analisi attenta dei segni, proprio come quei segni e quelle tracce “ in un campo arato, nel volo di un gabbiano, nel viso folle di un manicomio” che per tutta la vita Giacomelli ha visto, rintracciato e trascritto nelle sue immagini. Nei suoi scatti Giacomelli cerca di indagare l’animo umano, di immortalarlo nelle situazioni più intime. Una particolarità delle sue fotografie è il differente taglio che presentano l’una dall’altra: la scelta delle carte, dei formati, gli ingrandimenti, venivano decisi infatti dal fotografo in camera oscura.

La foto che ritrae il bambino di Scanno è stata esposta al Moma di New York e fa parte di una raccolta di una delle 100 foto più belle del Museo.

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