Letizia Battaglia e la bellezza cercata nella merda

by Felice Sblendorio

Letizia Battaglia è una potenza della natura: capelli rosa, sigarette, macchinetta fotografica al collo: l’aspetto è sempre lo stesso e gli ottantaquattro anni che dice di avere si dimostrano un mero dato anagrafico.

La fotografa palermitana, una delle più apprezzate a livello internazionale, è una donna in perenne movimento che non si è arresa alla vita, che non si è stancata della bellezza del mondo, nonostante i dolori e i lutti, le battaglie sociali e generazionali che ha vissuto e raccontato. Le etichette le sono sempre andate strette: era inevitabile che detestasse, ogni giorno di più, anche il pesante riconoscimento di “fotografa della mafia”. Dopo il dolore e il terrore, la vita si è impossessata del suo sguardo e, ora, pretende futuro e bellezza.

Proprio quello sguardo sulle cose dell’esistenza è protagonista, fino al 18 agosto, della imponente mostra antologica “Letizia Battaglia. Fotografia come scelta di vita”, curata da Francesca Alfano Miglietti con le ricerche di Maria Chiara Di Trapani presso la Casa dei Tre Oci a Venezia: 300 fotografie, molte delle quali inedite, che parlano di vita, amore, miserie, morte. Ci sono tutti i mondi ideali della Battaglia, racchiusi anche nel catalogo edito da Marsilio, nello splendido palazzo alla Giudecca diretto da Denis Curti: l’etica e la poetica, la dignità e la verità, la vita vissuta e poi donata. bonculture, in occasione di questa esposizione, ha intervistato Letizia Battaglia.

Lei viene da sempre considerata come la fotografa della morte, ma alla vita ha tributato gran parte delle sue opere. Nella mostra di Venezia colpiscono i volti delle bambine fotografate: sembra che tutte assieme raccontino un po’ di lei, è così?

Esattamente: sono io che non riesco a invecchiare. Sì, quelle bambine sono io: le fotografo per cercare me stessa.

Queste bambine quasi mai sorridono. È un riflesso condizionato di alcuni tempi e luoghi in cui l’infanzia è stata annullata e non c’è tempo per sognare?

Sono io che non le faccio mai sorridere. In generale tutti vogliono bambine sorridenti, ma a me non interessa quell’aspetto. Le desidero serie, un po’ severe, con gli occhi gravi e il sogno dentro: ci provo. Tutto questo mi fa ritornare, ancora una volta, alla mia vita di bambina a dieci anni, a un momento per me molto forte per vari motivi. Tutto quel vissuto me lo porto ovunque: io sono donna una condizionata dalla vita.

La sua vita è anche Palermo: come si vive in una città che è una perenne contraddizione, che unisce grandi bellezze e tetre rovine?

Si vive magnificamente. Palermo è una città magnifica nel senso mio, perché è complessa, difficile. Sono semplicemente innamorata di questa città, quindi è difficile trovare un perché. Ho viaggiato e viaggio tanto, ancora adesso, ma torno sempre a Palermo: non mi da solo pace, mi dà tutto. Tutto quello che vedo nel mondo poi lo porto qui. Non solo fotografie, perché sarebbe banale, ma tutti i miei successi, le mie impressioni, le meraviglie dinanzi al mondo che è così interessante le catturo e le porto subito a Palermo con urgenza.

Un rapporto viscerale?

Credo sia più intellettuale, che viscerale. È una cosa di testa. Anche di cuore, di corpo sì, ma è più la testa che altro.

Letizia è sempre stata una fotografa della e nella realtà: è vero che grazie alla fotografia si è sentita per la prima volta una donna libera?

Sì, è andata così. La prima parte della mia vita non è stata felice e coerente come avrei voluto. Essendomi sposata prestissimo, mi sono confrontata con un uomo che non mi capiva, che non mi permetteva di studiare, di esprimermi. Erano altri tempi e non aveva funzionato nulla. Nonostante sia durato quasi vent’anni quel matrimonio, io rimanevo una donna inquieta e lui un uomo che non mi capiva. Quando la corda era diventata troppo tesa, mi presentai al giornale “L’Ora” per lavorare e cercare la mia autonomia intellettuale ed economica, e da lì incominciò la mia appropriazione, la mia riappropriazione.

Era la libertà a chiedere spazio.

Volevo solamente esprimermi, volevo esistere. Nella prima vita avevo avuto tre meravigliose figlie, che sono sempre qui con me. Nei primi quarant’anni della mia vita era successo solo questo: avevo avuto tre figlie. Basta.

La macchina fotografica si è impossessata così del suo sguardo?

Quando ho cominciato a fotografare, per me era importante farlo bene. Ho cominciato a documentarmi, a notare il lavoro degli altri fotografi per capire cosa era avvenuto e cosa stava avvenendo. Con la macchina fotografica, così, ho cominciato a dire le mie parole, ho cominciato finalmente a dire quello che pensavo. Sentivo, verso il mondo e verso me stessa, un contatto personale con la realtà: io non registro solamente il mondo nelle foto, lo interpreto. Dentro ogni fotografia c’è Letizia. Io fotografo sempre, poi escono foto belle, brutte…

Quando capisce che ha scattato una bella foto?

Quando ritrovo me stessa. È una buona fotografia quando, oltre al soggetto ben rappresentato, ci sono veramente io.

Le immagini esposte ai Tre Oci rappresentano anche un mix: allegria, voglia di vivere, disperazione. Rispecchiano i suoi sentimenti questi due poli opposti? 

Sono persona positiva: il famoso bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, per me è mezzo pieno. Sono una che cerca nella merda la bellezza: io la voglio, la pretendo. La cerco: non la ottengo sempre, anzi, non si ottiene quasi mai la bellezza che si vorrebbe. Però sono una persona ottimista, non penso mai a quello che succederà. Ho una visione drammatica dentro, sono una militante della vita con una reale tensione verso l’esistenza. Anche se è una tensione positiva c’è chiaramente un riflesso di tutti i drammi che si presentano nella vita di ognuno di noi e io, che quest’anno ho raggiunto il traguardo degli ottantaquattro anni di vita, ho vissuto e attraversato drammi sociali, personali, generazionali. Nonostante tutto questo, che segna notevolmente il mio sguardo sulle cose, nulla può spegnermi. Mi spegnerò, forse, solo quando sarà finita.

Lei parla di drammi sociali, generazionali e credo alluda, principalmente, alla guerra civile di Palermo, ai morti ammazzati dalla mafia. Qual è la sensazione più brutta che ricorda di quel lungo periodo?

Quegli anni, quasi venti, mi hanno segnato profondamente. Hanno riaperto delle ferite, perché non puoi vedere bambini e uomini ammazzati, amici ammazzati, buoni e cattivi, persone corrette ammazzate. Non puoi vedere lì per terra persone dissanguate con la certezza che non si muoveranno mai più, che non potranno mai più dire le cose della loro vita, che non le potranno più vivere. Rimanere immobile di fronte all’orrore è una ferita enorme.

Lei, poi, era doppiamente penalizzata: viveva e fotografava quelle morti.

Sì. Per vent’anni non ho incontrato una sola persona ammazzata, ma decine e decine, centinaia. Ogni giorno: tutti insieme. Ogni giorno a Palermo ho registrato quel dolore e me lo sono portato a casa. Ho convissuto con quell’orrenda vicenda, con le stragi e con i morti, con estrema difficoltà. Ho vissuto un dolore continuo, doppio. Attualmente non dico che la mafia è finita, anzi, non lo dico affatto. Dico che quell’epoca fu potentemente disperata, e che dentro di me quel dolore vive in ogni comportamento della mia vita: se vado in un ristorante, se mi telefona qualcuno, se mi arrivano lusinghe e proposte da una parte sbagliata. Avendo vissuto quella mattanza, su questo non transigo.

La vita è andata avanti dopo quel dolore?

Non ho mai finito di cercare e donare bellezza: è questa la mia ragione di vita. Mi piace molto dare sostegno, creare. Il Centro Internazionale di Fotografia a Palermo è una mia creatura a cui tengo tantissimo. Ci sono vari modi per esprimere questa modesta presenza nel mondo. A ottantaquattro anni cerco di vivere donando ancora bellezza. Il mondo poi è meraviglioso, ma la nostra presenza è, appunto, modesta e non credo di essere una persona particolare solo perché ho successo. Ezra Pound nei Canti Pisani dice: “Strappa da te la vanità. Ti dico strappala”. Questo piccolo verso ha indirizzato e può spiegare molto bene la mia vita.

Lei Pound l’ha conosciuto.

Sì, l’ho conosciuto a Venezia con il poeta Emilio Isgrò. Non conoscevo nulla della sua poesia, così lo guardai e cominciai a piangere. Nel suo sguardo, che era offeso dal mondo, c’era una potenza forte. Non lo dimenticherò mai.

Una vita incredibile la sua! A ottantaquattro anni che rapporto ha con il tempo che passa, lei che anima la fotografia, forse l’unica arte a fermare il tempo?

Nessuno: con la mia vecchiaia non ho nessun tipo di rapporto. Certo, il mio corpo non è più quello di prima, ma la mia testa è potente, il mio rapporto d’amore con il mondo è potente. Non ho nulla da dire contro la mia vecchiaia: mi sembra bellissima e struggente, perché alla fine lo so che mi rimane poco tempo per tutte le cose che sento di voler fare. Ma questo non mi fa disperare: non ho paura di nulla, se non della mancanza d’amore. La mia vecchiaia ha i capelli rosa.

Ecco, a proposito di capelli: perché il verde e il rosa sulla chioma di una signora come lei?

Da quando sono conclamatamente vecchia mi piace essere sfrontata: capelli verdi a ottant’anni, capelli rosa a ottantaquattro. Perché? Perché sono strani. Le mie coetanee non osano, invece io voglio dire che la vita è meravigliosa anche in questo periodo avanzato dell’età: la vita è meravigliosa sempre se la sai vivere con coraggio.

Se avesse la possibilità di scattare l’ultima fotografia della vita, cosa fotograferebbe?

Da un po’ di tempo fotografo nudo di donna, perché il nudo di donna è positivo. Il nudo di donna naturale, non quello sexy che è cretino, è la terra, è l’amore, sono i figli. E poi le donne hanno una sensibilità unica, quasi rivoluzionaria.

Le sue battaglie sono state private e politiche: cosa osserva il suo sguardo sul presente del nostro Paese?

C’è molto odio e tutto questo proviene anche dagli imbecilli che ci governano, che danno questo input di odio e la gente sciocca imita e persegue questi sentimenti. Oramai l’odio è ovunque, anche su internet. Ho paura, ho davvero paura di quello che dice la gente perché la cattiveria uccide. Io non so, però, tutto questo a cosa è dovuto, perché in realtà stiamo molto meglio di tanti anni fa, nonostante alcuni vizi antichi che hanno deturpato il nostro Paese. Questo odio, che è lontano da me, mi fa paura. Il rancore è una cosa brutta, che avvelena anche il bello.

Un perché alla rivendicazione dell’odio non lo trova?

No, in profondità non lo so, non lo posso sapere. So che c’è, quindi dipende anche dai politici, che sono inadeguati alla vita. Sono inadeguati a creare felicità. Possono solo creare opere pubbliche o cose arzigogolate per i loro interessi. La felicità, quella naturale di ogni essere umano che passa dal pane della gente alla cultura, loro non la sostengono. Bocciati!

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