Marina Malabotti, l’identità femminile e l’indagine etnografica nella mostra a Roma

by Daniela Tonti

Gli occhi delle bambine, le comunità rurali del Sud Italia, le feste popolari, le processioni religiose, scene di vita in una galleria, gli autoritratti e i riti funebri. E’ il mondo fotografato da Marina Malabotti tornato in vita e raccolto in una straordinaria visione d’insieme grazie alla mostra che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma le ha dedicato.  

“Marina Malabotti fotografa. Uno sguardo pubblico e privato” curata da Giacomo Daniele Fragapane e strutturata attraverso l’esposizione al pubblico di 170 immagini, raccontate in due sezioni principali, una dedicata alla ricerca artistica, l’altra a quella etnografica si è chiusa la scorsa settimana. In occasione del finissage è stato presentato anche il catalogo edito da Contrasto, un volume di centosessanta pagine con importanti contributi che illustrano non solo la storia di questa straordinaria fotografa ma anche le sue tecniche del tutto innovative e il suo infaticabile lavoro di indagine demoetnoantropologica.

Marina Malabotti è nata a Roma nel 1947 da famiglia per parte paterna di origini croate. A Trieste inizia da giovanissima a lavorare come grafica e designer realizzando molte campagne pubblicitarie e si avvicina alla fotografia intorno agli anni ’60, sposata con l’antropologo Francesco Faeta inizia il suo impegno etnografico che copre l’arco di oltre un decennio. Uno dei primi lavori riguarda l’area della Calabria, le comunità del profondo Sud e i riti e le usanze locali in occasioni particolari della vita collettiva e sociale come la quaresima e i carnevali.

Le fotografie della Malabotti sono veri e propri reportage tanto che una delle prime inchieste fu quella sulla comunità di Melissa e per realizzarla restò a lungo a lavorare pancia a terra sul campo, organizzando il lavoro per aree  tematiche con il supporto anche di materiali audiovisivi. La mostra circolò ovunque dall’Europa all’estero.

Sono anni particolari in cui Marina Malabotti, a differenza della maggior parte degli intellettuali che gravitavano intorno al PCI, decide di non sposare  la causa operaista ma quella ruralista realizzando in prima persona anche manifesti e materiali divulgativi di propaganda. Lavora moltissimo sul fronte dell’iconografia della miseria rurale che ormai sembrava ripetersi in forme sempre uguali ed esaurite.

Sono gli anni in cui la fotografia italiana si trasforma, c’è l’affermarsi dell’uso del colore che spodesta la lunga tradizione di bianco e nero nella supremazia estetica e c’è anche lo spostarsi del centro dell’attenzione verso il paesaggio, sulla spinta dei movimenti americani della Land Art che ha senza dubbio il merito di aver imposto una nuova concezione di territorio.

Marina Malabotti non vorrà mai misurarsi con il colore né cederà al medio e grande formato che verso la fine del Novecento diventa il medium privilegiato di paesaggisti e giovani autori. 

Il suo metodo di lavoro è basato sull’uso della sequenza che consente larghi margini di decostruzione rispetto alle idee e agli immaginari dominanti nonché specifici protocolli di osservazione. Osservando i provini viene da pensare che a monte ci fosse una sorta di editing mentale, con quali immagini aprire e con quali chiudere. In modo da costruire una narrazione per immagini che traesse origine da un’osservazione strutturata e accompagnata. .

Giacomo Daniele Fragapane

Le foto della mostra e del suo catalogo sono tratta da una serie di lavori collettivi tra cui “Un anno in Galleria: etnografia di uno spazio artistico (1981)” che comprende la serie di fotografie, rimasta incompiuta, che Malabotti realizzò, fino al 1981, nell’istituzione museale romana, tra sopralluoghi e sessioni di ripresa, in cui sono ritratti anche gli artisti e i protagonisti di quel periodo, come Gillo Dorfles, Bruno Mantura, Filiberto Menna, Giulio Paolini, Renato Nicolini e Simonetta Lux, tra gli altri.

C’è poi una sezione dedicata alle ricerche etnografiche come “Feste religiose nel Mezzogiorno d’Italia. Settimana santa (1970-1976)” o la serie “Paesaggi e architetture popolari in Calabria (1983-1984)”, la già citata “Melissa, un’indagine di comunità (1975-1978)” e “La condizione femminile e infantile in Calabria (1980-1985)”.

È l’identità femminile il tema centrale del lavoro di Marina Malabotti. Ritratti di donne dall’espressione seria, profonda e consapevole di un’antica sofferenza talvolta organizzati in brevissime sequenze o piccoli dittici che sono presenti come simboli di un’intera civiltà.

La fotografa fa i conti, come documentano i suoi diari, con le difficoltà di essere donna e madre in un contesto maschile e maschilista come era quello della fotografia professionale. Nei suoi ultimi progetti, tra cui quello dedicato alla scuola di Migliuso, si interroga in una prospettiva molto pessimista sulla condizione femminile del futuro.

I soggetti ritratti sono bambine a scuola a cui la fotografa chiede di mostrare la pagina preferita del sussidiario. Marina Malabotti aveva una profonda sensibilità e una grande empatia e rimase molto colpita dal fatto che la scelta della maggior parte delle bambine ricadde sulla parte del sussidiario dedicato alle attività casalinghe.

C’è poi il lungo lavoro sul cerimoniale del lutto, la mostra Imago Mortis che si sofferma sulle implicazioni referenziali come i simboli e le effigi e l’attenzione si sposta dal funerale alla ricorrenza, alla reiterazione del lutto.

La mostra e il  catalogo sono stati curati da Giacomo Daniele Fragapane e hanno beneficiato del grande contributo di Federico Faeta, figlio di Marina Malabotti, oltre che studioso e fotografo ha dato un apporto fondamentale per la ricostruzione di tutti gli aspetti psicologici e dei contenuti “che non sarebbe stato possibile ricavare dall’osservazione diretta dei provini perché è dai provini a contrasto a contrasto 35mm che l’esposizione è partita”. Un lavoro straordinario che resta documentato dal catalogo, edito da Contrasto e in vendita in libreria.

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