Un affare di famiglia, il film di Hirokazu Kore-eda candidato agli Oscar

by Giuseppe Procino

In un appartamento di modeste dimensioni, vive in condizioni di povertà quella che sembra essere una famiglia, ma che in realtà è un gruppo di persone che ha scelto di vivere sotto lo stesso tetto, in fuga proprio da situazioni familiari al limite.

Li ospita l’anziana signora Hatsue, nonna per scelta di questo gruppo e principale fonte di sostentamento grazie alla pensione del suo defunto marito.  Osamu, unico maschio adulto di questo nucleo, vive alla giornata e fa la spesa commettendo, assieme a quello che sembra essere suo figlio, ma che in realtà è stato trovato in una macchina, piccoli furti. Una sera, tornando a casa, proprio dopo aver derubato un super market, i due, si imbattono in una bambina in difficoltà e decidono di portarla a casa.

Hirokazu Kore-eda torna a indagare l’universo delle relazioni famigliari, offrendoci una visione utopica ed idealista di famiglia, non come intreccio di legami biologici ma come il frutto del libero arbitrio. Ogni personaggio sceglie di esserci per qualcun altro e di ricoprire un ruolo che nella struttura sociale può essere attribuito dalla biologia oppure dalla legge, fornendoci un modello di famiglia quasi del tutto privo di conflitti, in cui esistono comprensione, dialogo e rispetto.

Quello che Kore-eda ci disegna, è una sorta di utopia, un regno felice in cui nessuno è giudicato, in cui le scelte portano inevitabilmente alla serenità ma su cui vige l’ordine della legge, ribaltando i concetti di giusto e sbagliato, infrangendo il sogno: loro e gli altri; loro ed il mondo esterno, fatto di padri che spengono le sigarette sulle braccia di bambine indifese, in cui i figli non tornano a casa per le vacanze. La disgregazione del concetto di famiglia come imposizione e la ricostruzione con gli stessi atomi, della favola perfetta, che crede di non aver doveri rispetto alla legge, legge che irrompe sulla scena improvvisamente, spiazzando e destabilizzando.   Un film in cui i neri e i bianchi convivono perennemente creando dei grigi ideologici, in cui le storie dei personaggi si ribaltano, mostrando lati oscuri che possono essere giustificati, in cui non esiste giusto o sbagliato. Il senso di morale come concetto personale e necessario e non come obbligo, sempre in bilico tra “il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me”.

Film lucido e volutamente vivido, spento nei colori e carente nella luce, seppur luminosissimo, “Un affare di famiglia” ricalca la poetica di Kore-eda, confermando il sospetto che avevamo già  dai tempi di “Little Sister”, di avere difronte un vero e proprio autore.

Un’opera totalmente coerente con le opere precedenti del regista nipponico nello stile e nel contenuto. Inquadrature fisse, ritmi lenti per immergere lo spettatore nella narrazione, “Un affare di famiglia” è tutt’altro che un film statico, anzi, Kore-eda gioca con le emozioni dello spettatore, tenendolo in vigile attenzione, facendolo emozionare, commuovere, ridere, affezionare a personaggi che poi gli saranno sottratti senza preavviso alcuno, incazzare ma soprattutto rendendolo giudice esterno del dramma umano dei protagonisti. Quello che Kore-eda chiede allo spettatore è di essere parte attiva nella storia, ribaltandone le convinzioni etiche. Essere il primo giudice delle vicende, prima dell’arrivo della legge.  Il film ha conquistato la Palma D’Oro allo scorso Festival di Cannes ed è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero. 

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