“La rampicante”, Davide Grittani sceglie la narrazione familiare per la provincia di sangue e vendetta

by Antonella Soccio

Giornalista e scrittore foggiano di lunghissimo corso, Davide Grittani è in tour in Italia ed in libreria con i tipi della LiberAria (casa editrice barese) con “La rampicante”. Il romanzo inserito tra i migliori libri 2018 dall’inserto la Lettura del Corriere della Sera, è tra i candidati del Premio Strega.

Bonculture lo ha intervistato, dopo la sua tappa di presentazioni in Sardegna.

Dal giornalismo alla narrativa, il lavoro sulla lingua

La prima curiosità, Davide, riguarda lo stile. La maggioranza dei lettori ti conosce come giornalista. Nel romanzo colpisce l’infinita ricerca della tua prosa, molto poetica. Quanto è laboriosa la tua dedizione alla parola?

A volte, in alcuni casi a torto e in alcuni altri a ragione direi, si ritiene che i giornalisti non siano in grado di articolare una narrazione degna di questo nome. Colpa di un Paese che vive e si alimenta di luoghi comuni, oltre che di una categoria – segnatamente quella dei giornalisti – che ha emendato la ricerca della curiosità per consegnarsi al diffuso esercizio del copia e incolla. Invece anche un giornalista coltiva le sue letture, il proprio stile, insegue un personale ideale di bellezza.

Nella fattispecie de La rampicante, ho cercato di lavorare come meglio potevo una lingua che non fosse comune; inflazionata; arrangiata al ribasso, insomma, come succede soprattutto nei gialli e nei thriller che hanno bisogno di andare subito al dunque. Ho fatto ricorso a una lingua nobile facendo attenzione a che non stancasse il Lettore, che non lo mettesse a dura prova, perché la lettura deve restare piacere, al massimo impegno, ma mai costrizione. Ho passato giorni e giorni su dei capitoli, settimane intere su delle soluzioni stilistiche. L’intera stesura – compresa di editing, eseguito con la bravissima Alessandra Minervini di LiberAria Editrice – è durata quasi due anni e mezzo. Un tempo necessario per un romanzo del genere, in cui la posizione del narratore è molto alta e in cui lo stile e la lingua sono un valore aggiunto, specie all’interno di una trama molto complessa, crudele, a tratti spietata.

Ma non mi è costato molta fatica, il ricorso a questa lingua. Perché ho letto e riletto quasi tutto il Novecento, la cui narrativa – anche quella italiana – è strapiena di romanzi scritti in maniera sublime e in alcuni casi addirittura straordinariamente. Ma i giornali non ne parlano più, perché la lingua italiana è stata derubricata a una specie di accessorio, al posacenere delle amenità che ci sforziamo di pronunciare quando avanza del tempo dai nostri smartphone. E anche di questo, ahimè, hanno molte responsabilità i giornalisti, perché pur di comunicare a un’ampia fetta di persone… hanno accettato che la loro lingua venisse addomesticata dalla mediocrità.

Saga familiare e probabile seguito

La Rampicante è agli inizi un romanzo di formazione potente. Alcune scene ricordano il primo Roth, quanto c’è di tuo nelle immagini? Che tipo di emozioni giovanili volevi fornire? La saga familiare è un format assai fertile nella letteratura di tutti i tempi e oggi ancora di più. Credi di poter formulare degli altri capitoli sulla stessa falsa riga?

Quella dei Graziosi non è una saga famigliare, ma una narrazione famigliare. Le famiglie non vengono raccontate abbastanza, secondo me. Eppure sono una sintesi dell’umanità, un riassunto delle dinamiche umane. Riccardo è un ragazzo che non è né figlio né padre, che trova nella rincorsa alla verità un modo per giustificare la propria vita. Cesare invece è un padre conservatore, bigotto, a suo modo anche affettuoso sebbene spietato e autoritario. Quando queste due zolle confliggono tra loro causano un sisma, un terremoto interiore che provoca danni: soprattutto in Riccardo, la cui identità è in corso di formazione visto che il romanzo si occupa della sua esistenza tra i 15 e i 30 anni.

L’intero giorno di una famiglia

Tutti i romanzi corrono il rischio di assomigliare a qualcos’altro, dipende molto da come vengono scritti e da cosa contengono veramente. Da quale messaggio, sociale oltre che letterario, portano al lettore. La vita della famiglia Graziosi è una vita complessa, delicata, in alcuni tratti claustrofobica, ma proprio all’interno di queste coscienze avvengono i fatti e i misfatti che mi attraggono di più. Basti pensare alla trasmissione Un giorno in Pretura, l’unica trasmissione italiana che – sebbene senza volerlo – racconti di cosa sono fatte le nostre province, i paesi e la gente che li abita. Uno spaccato umano importante, perché senza filtri – un teste o un imputato di fronte a un giudice, senza telecamere né giornalisti – racconta di che pasta siamo fatti. La rampicante parte da questa personale esigenza, raccontare ai lettori l’interno giorno di una famiglia che però, come tante altre, ha più cose da nascondere che da proteggere. Ed è questo aspetto che ci terrorizza di più. Fin dove potremmo arrivare se…

La rampicante non avrà alcun seguito. Resterà un romanzo isolato, nella sua dimensione corale e molteplice. Ma non seguiranno libri che gli assomigliano. Chi mi conosce bene sa che detesto i sequel, distruggono la creatività di un momento che deve restare unico e perfetto nella sua solitudine. Così come detesto le trilogie e quadrilogie, nel mio piccolissimo le ritengo operazioni commerciali che di letterario hanno poco».

Edera, la voce dei bambini

Come nasce il personaggio di Edera?

Edera è il personaggio forse più riuscito del romanzo. Almeno così mi dicono tutti quelli che l’hanno letto. E’ una bambina affetta da paracusia, ascolta le voci degli altri nella sua testa e le dispensa agli altri come fossero “perle di saggezza”. Per scriverla ho dovuto costruire una lingua apposta per lei, una voce narrativa che fosse scolpita addosso a lei. E’ stato bellissimo, molto affascinante. Ma anche pericoloso, perché io ho tre figli e, scrivendo di queste cose, ti rendi conto di come – forse, anzi senza forse – anche io applico verso i miei figli il cosiddetto “codice di distrazione” che ogni adulto applica verso i bambini. La voce di Edera, la sua malattia e la sua condizione di emarginata, erano un modo per raccontare all’interno de La rampicante come, dei bambini, non ci importi nulla, come di loro non ci occupiamo mai abbastanza e soprattutto mai veramente. Un modo per ammettere, da adulto, la mia parte di colpa, la mia richiesta di assoluzione idealmente rivolta a loro e ai miei figli. Nella piena consapevolezza che non cambierà niente, né oggi né domani. E che dei bambini, in un Paese come l’Italia, non interessa niente a nessuno. Il resto è tutta retorica.

Perché l’ambientazione marchigiana?

Le Marche mi servivano, come ambientazione, perché sono una regione che si nasconde come l’edera. Come la rampicante. Una terra che cresce all’ombra, che non ha bisogno di proclami e presenze. Che al contrario della Puglia e della sua, a volte spropositata, esposizione mediatica, è una regione che ama molto la discrezione, la concretezza, i fatti e non le parole. Mi serviva un posto del genere per calarci una storia di provincia ma anche di vendetta, di soldi ma anche di sangue, di pezzi di identità che si trasferiscono da un corpo a un altro.

Il trapianto, i rischi di doverlo raccontare

Quali sono le “spie di allarme che la società ignora”?

Il trapianto di organi, all’interno di un romanzo come La rampicante, è il momento della resa dei conti. Non tra personaggi, ma tra etica e coscienza, tra fede e brutalità del destino. Tra chi pensa che un gesto del genere e una generosità così ampia e irripetibile possano bastare a far ricredere un uomo (Riccardo), e chi invece pensa che in fondo si tratta solo di un atto dovuto e quindi di scienza (suo padre adottivo, Cesare). Il trapianto è l’unico modo in cui un uomo può rinascere senza passare dall’utero, l’unico modo in cui una vita può tornare al suo significato biblico passando però attraverso la scienza. Inserire il trapianto di organi all’interno del romanzo è stata una scelta che era chiarissima fin dalla prima stesura, fin dalle prime pagine del romanzo. Sapevo che avrebbe assorbito molta della critica e delle lusinghiere recensioni che sono state dedicate al romanzo, rischiando così di oscurare tutto il lavoro fatto sulla lingua e sulla struttura narrativa. Ma il trapianto nel romanzo ha una funzione catartica ma non assolutiva, forse una funzione filosofica. Non stabilisce chi merita cosa, ma impone uno sguardo dal di fuori delle nostre vite. E, inevitabilmente, una riflessione sull’arroganza con cui le conduciamo.

Scrittura visiva e la trasposizione in un film

Il libro è molto cinematografico, hai già pensato di vendere i diritti? Hai avuto delle proposte e come lo immagini? 

E’ arrivato un concreto interessamento, da parte di un famoso e per me straordinario regista. Ma si tratta di fasi talmente preliminari per poter dire che sarà tradotto in film, che non ci penso affatto… almeno per ora. Credo, nella speranza di non peccare di presunzione, che la mia sia una scrittura visiva, molto scenica, quasi girata per piani americani. Inevitabile che si pensi a un film, ma è anche inevitabile che io, per quanto felice se si arrivasse a una cosa del genere, ne prenda le “distanze”: scrivere romanzi non è scrivere film, le due cose – almeno per me – non possono stare insieme, non si assomigliano. Ecco perché, se si dovesse arrivare in qualche modo a ipotizzare la trasposizione cinematografica de La rampicante, io non farò parte né dei soggettisti né degli sceneggiatori: non saprei da dove cominciare, tanto per dirne una. Mi auguro che questa cosa avvenga, nelle Marche fanno il tifo e anche qualcosa di più. Si stanno dando da fare per poterlo realizzare. Non posso che augurarmelo, vedremo…

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