Da #quellavoltache al Manuale per ragazze rivoluzionarie, Giulia Blasi e il femminismo che rende felici

by Antonella Soccio

“Il femminismo è una corrente nonché una pratica e un’identità con una storia lunga secoli, che ha come obiettivo finale la liberazione degli esseri umani dalla pastoie della società patriarcale, affinché a ognuno sia permesso di esprimersi come individuo al di fuori dei ruoli di genere predeterminati”.

La scrittrice, autrice televisiva, giornalista e traduttrice Giulia Blasi col suo libro “Manuale per ragazze rivoluzionarie. Perché il femminismo ci rende felici”, presentato in Puglia in una due giorni alla Libreria Kublai di Lucera e alla Libreria Ubik di Foggia ha consegnato un testo nel quale mette in ordine una serie di concetti femministi, che per talune dell’ondata degli Anni Sessanta e Settanta possono essere interiorizzati da anni, ma che per le giovani donne Millennial sono utili per “uccidere” le grandi madri del femminismo e per trovare la propria strada per essere libere.

Sessismo, mansplaining, ossia “gli uomini che ti spiegano le cose, anche quando sei molto più esperta di loro in materia”, tradotto da Giulia Blasi con il termine “minchiarimento”, perché il “diritto di parlare per un uomo è dentro le sue mutande”, il #metoo, le gallery dei look dei giornali per i quali le donne anche ministre sono solo un bel paio di cosce o tailleur, la natura predatoria, il maschilismo che vede tutte le donne come sempre protagoniste di una commedia sexy, lo sguardo maschile introiettato dalle donne, il doppio sì che si sgretola, le desinenze femminili per i lavori pubblici e professionali, considerati anche da tante donne solo nel loro prestigio maschile.

giulia blasi

I temi del libro sono tantissimi, tutti affrontati con uno stile formidabile, fresco e leggero. Veloce. L’obiettivo di ogni femminista è sottrarre l’avvenenza dalla sua funzione pubblica. La liberazione del corpo, fondamentale per il femminismo occidentale, passa anche per la rimozione del giudizio morale sull’uso che ne fa la singola donna, per Giulia Blasi.

Questa sua irruenza ideale ha molto conquistato le giovanissime presenti nello spazio ipogeo di Ubik.

Come nasce l’idea di un manuale? La scrittrice ha risposto con franchezza.

Ero piena di un senso di ingiustizia, mi sentivo una persona inadatta a vivere nei canoni degli anni Ottanta. Siamo negli anni di Drive In, in cui le uniche donne che si davano erano le fast food, seminude e mute. Io non avevo né il fisico né l’inclinazione per fare quel tipo di scelta o per rivedermi in quel tipo di donna. Non avevamo molti modelli alternativi, nonostante venissimo dagli anni Settanta, in cui le donne avevano conquistato ampli spazi. Tuttavia il pensiero era ancora maschile, lo spettacolo era maschile, il cinema. Tutto era profondamente maschile, lo sguardo della donna era pressoché assente dalla nostra cultura. Io ragazzina di provincia, a Pordenone, ho trovato il femminismo negli anni Novanta quando sono andata via da casa ho avuto accesso ad internet e ai giornali musicali inglesi e americani, che mi hanno portato il femminismo delle cantautrici americane. Ragazze che suonavano e che davano il femminismo per scontato, come se fosse sempre esistito. Da lì in poi ho cominciato la mia formazione, in maniera assolutamente artigianale. Per 10 anni ho fatto la femminista su internet, nell’unico modo che conoscevo.

Insieme al mio gruppo femminista abbiamo lanciato la campagna #quellavoltache e da outsider mi sono ritrovata in televisione a fare la miglior femminista protagonista. A quel punto Rizzoli mi ha chiesto di scrivere un libro, l’idea originale era parlare di #quellavoltache, ma io ho detto loro di avere un’idea migliore. Ho tirato fuori dalla polvere un progetto che avevo nel cassetto, che si chiamava le “femmine fanno schifo”, che era un saggio sull’orrore del femminile nella cultura contemporanea e di come la femminilità viene svalutato nel cultura mainstream. Tutto quello che è dominio delle donne è considerato inferiore o meno degno di essere ricoperto di soldi. Tiro fuori questo progetto e mi rendo conto che posso ampliarlo e da saggio diventa un manuale con una parte teorica e una parte pratica, il tutto basato sui miei anni di militanza selvaggia e selvatica.

Al di là della sorellanza, nel libro dici che la prima azione femminista è cominciare a non giudicare le altre per il loro corpo, non criticarle se sono grasse o magre, se si sono o meno rifatte, se hanno o no una ruga di troppo. Come si fa? Ne siamo capaci? Siamo capaci di liberarci dell’ossessione patriarcale che ci rende anzitutto dei corpi da guardare?

Quello che non voglio fare mai più è attaccare le persone per il loro aspetto, per le loro scelte e su cose per cui non hanno scelta, come l’aspetto fisico, il peso, la condizione personale, le azioni in un momento di pressione. Di una ragazza molestata non mi interessa sapere cosa fa, mi interessa che sia stata molestata. Non frega nulla se l’attrice è andata nel camerino nel produttore, è stata molestata e non se n’è andata. Il mio problema è la molestia e un mondo in cui se vai a casa di un regista e vieni molestata, la donna normalmente vien considerata preda. Il mio problema è un mondo in cui se un uomo viene a casa tua è come se gli dessi il consenso per un rapporto sessuale. No. Non voglio mai più giudicare le altre per scelte che non hanno fatto loro e per cui non hanno scelta.

Lo facciamo continuamente anche in positivo. Capita di guardare un’amica che ha perso un po’ di peso e di dirle: eh ma come stai bene. È come se noi associassimo la magrezza alla bellezza e questo è molto punitivo. Stiamo sempre a guardare il corpo delle altre e a confrontarlo col nostro per vedere quanto è conforme.

Ti attaccano se non sei sempre perfetta e se sei troppo bella ti attaccano comunque. Se penso a quanto è stata criticata Maria Elena Boschi per il fatto di essere una bella donna e quanto tempo si è perso di lei a parlare in quel senso invece che delle azioni e delle scelte che ha fatto e che sono state più volte discutibili. È terrificante, perché è come se lei fosse stata solo il suo corpo in positivo e in negativo. È molto destabilizzante: una ragazza o una donna che vogliano darsi alla carriera pubblica può essere molto scoraggiata dal dover apparire in pubblico e di dover esporre il proprio corpo all’attacco o al giudizio altrui. Non si fa lo stesso con gli uomini.

Il primo elemento di rancore della donna verso la società sta nell’essere costretta ad affrontare la maternità come un aut-aut. – Carla Lonzi

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