Deborah Riccelli e il monologo di dolore delle sue farfalle

by redazione
deborah riccelli

Incontriamo Deborah Riccelli in un affollato e tintinnante bar, inserendoci nella sua fitta agenda di appuntamenti di presentazione del suo ultimo libro “Mille e più farfalle – racconti di vita breve”, edito dalla ERGA durante lo scorso anno. 

Delicato, duro, diverso, colorato, sensibile, serrato, emozionante, sorprendente, paralizzante, poetico. Questi alcuni degli aggettivi che si trovano nelle recensioni al tuo ultimo lavoro. Come fai a coniugare tutte queste caratteristiche nei tuoi paragrafi?

Mille e più farfalle” è un libro breve, sono quattro racconti, ma molto molto duri. Non mi ritrovo completamente, per me che l’ho scritto, in tutti quegli aggettivi che molto carinamente la gente mi attribuisce. Perché oggettivamente dal titolo in poi e dalla copertina, che raffigura un’altalena vuota e un’ombra di una bambina a terra, mi riconosco nel duro. Per tipologia di scrittura chiedo al lettore uno sforzo molto grande. Sono dei monologhi. Chiedo di lasciare tutto quello che si sta facendo e sedersi su di una sedia in una sala d’attesa di un ospedale. E mi rendo conto che non è facile. E’ stata una scoperta anche per me questo libro perché non immaginavo avesse un seguito così grande. So benissimo che le persone leggono anche un po’ per evadere.

Non è un thriller

Il mio libro non è un thriller avvincente, con i miei racconti si entra in un dolore diverso, interiorizzato. Che ti fa venire in mente odori, sensazioni che vuoi dimenticare. Tutti noi abbiamo avuto qualcuno che è stato male, e quindi quegli odori, qui carrelli degli ospedali, quegli aghi vogliamo dimenticarli. E io invece cerco di farglieli tornare in mente. Ma non è una cosa brutta secondo me. C’è una frase bellissima che ho letto in un libro: “Il dolore esige di essere vissuto”. E io credo fermamente che il dolore in fondo sia una cosa bella, un’esperienza di crescita. Va interiorizzato, per quanto ci faccia paura, e va poi capito. Il lutto va vissuto, altrimenti è là che ci fa male. È nel non viverlo che poi ci produce dei traumi.

Quanto nel tuo libro c’è di documentazione del reale e quanto romanzato?

Sono tutti e quattro racconti inventati. Solo uno si rifà ad una storia realmente accaduta. Quella di Hagere Kilani. Una bambina violentata ed uccisa a soli quattro anni in provincia di Imperia in im luogo che paradossalmente si chiama Parasio, che significa paradiso. Hagere stava giocando ed è stata portata via da un uomo. Ad anni di distanza dagli accaduti, ho indagato personalmente su questa storia, ho iniziato ad intervistare la gente. Qualcuno ha svelato che stavo lavorando su questa storia. Ho contattato i poliziotti coinvolti, ho letto l’autopsia. Ero completamente dentro questa vicenda. Sono arrivata a ricevere forti minacce da un poliziotto, che è stato sospeso. In galera c’è una sola persona, ma potrebbe essere solo un capro espiatorio. A quanto si evince dai documenti è difficile che abbia ucciso la bambina da solo. 

Il dolore del lutto

Ho letto la cartella clinica di questa persona. Materialmente, da come è stata uccisa Hagere, considerato che lui ha una paralisi ad un braccio, è impossibile che ci fosse implicato solo un carnefice. C’è una rete dietro. Chi ospitava questo ragazzo dicono che si sia ucciso, ma non si sa niente di più su questo suicidio avvenuto il giorno prima di essere sentito dal giudice per le indagini preliminari. Tante le lacune, tante le minacce che ho ricevuto. Ma comunque volevo far rivivere questa bambina e la sua vita interrotta.

Ad ogni racconto hai scelto di correlare un inciso firmato da un noto psicologo, perché?

Mi sembra di scavare tanto. Di aprire delle ferite. Volevo che qualcuno mettesse dei cerotti. Sono racconti che si possono leggere scorrevolmente, ma ci sono anche lettori che ne vanno a soffrire troppo di empatia. Volevo dare un seguito a questo star male. Volevo che qualcuno spiegasse le ragioni della violenza e di quello che ne deriva.

Nemo propheta in patria, sembra che tu faccia eccezione. “Mille e più farfalle” è il libro più venduto a Genova nel 2018.

Genova è la mia città, e devo dire che questa volta m’ha stupito perché mi trovo sempre meglio fuori che non lì. Invece a luglio siamo stati primi in classifica di Repubblica per tre settimane. Mi ha stupito veramente, è un libro piccolo, breve, ma indigeribile. Farlo uscire il due luglio a me sembrava una cosa da pazzi, e invece abbiamo avuto una ressa già alla prima presentazione. Abbiamo battuto De Giovanni e Camilleri, ohu! – sorridendo continua – Ego a parte,  mi ha fatto veramente tanto piacere che la mia città lo abbia accolto in quel modo. Ma soprattutto mi ha fatto piacere perché non credevo veramente che la gente volesse addentrarsi in queste storie così dolorose. Ma io scrivendo di morte voglio veramente parlare di vita. E questo sembra sia stato compreso. 

Attivista nel campo delle violenze familiari di genere, femminista. Perché non si parla anche così facilmente di maschicidio?

Perché non esiste fondamentalmente! Si chiama femminicidio perché ovviamente sono delle situazioni perpetrate nei confronti di una donna. La violenza di genere ha un iter. Innanzitutto se muoiono tre uomini all’anno per mano di una donna non meritano, fra virgolette, un termine. Se muore una donna ogni due giorni e mezzo forse è un fenomeno che richiede proprio che ci sia un termine che lo definisca. E poi il termine femminicidio, ci tengo a specificarlo per chi non lo sa, non è l’uccisione di una donna. Se una donna viene uccisa, ora siamo qui in bar, da uno che passa non è un femminicidio solo perché lui è un uomo. E’ un femminicidio quando ci sono dei comportamenti reiterati nel tempo, quando ci sono delle avvisaglie, quando c’è l’abuso del maschio nei confronti di una donna. Che sia fisico, psicologico, che sia di sottomissione. E’ per quello che non esiste quel termine. E non è detto che le donne non siano violente, ci tengo questo a specificarlo. Ho aperto la mia associazione, Oltre il silenzio, anche agli uomini. Seguo padri separati martorizzati dalle loro ex compagne. Vuol dire che le donne non è detto che non agiscano con violenza, però sono una minoranza, non valutabile, che agisce con violenza in maniera diversa.

Una tua collega scrittrice, Daniela Farnese, ha pubblicato un libro dal titolo “101 modi per far soffrire un uomo”. Pensi che avrebbe fatto più scalpore un testo simile rivolto all’altro sesso?

Non ho letto quel libro. Ma non giustifico il titolo. Poi non lo so, magari è solo un titolo accattivante e c’è scritto tutt’altro. Bhà, “101 modi per far soffrire una donna”? Secondo me non è il caso di far soffrire né gli uomini né le donne. Sarà che vedo troppe donne che soffrono e soprattutto troppe bambine che soffrono per violenza assistita. La vita ci fa soffrire già abbastanza da sola, no? Ci mette tutti i giorni davanti a delle prove e dovremmo organizzarci per superarle. Quindi non mi serva che serva un decalogo addirittura per infliggere sofferenza agli altri, che siano uomini o donne.

Dai tuoi precedenti scritti opere teatrali. Di questo ne vorresti fare un film o quattro?

Ma tantissimi. Mi piacerebbe tanto. – emozionata incalza – “Mille e più farfalle” sarà presto a teatro con quattro monologhi. Ho una modalità di scrittura già di per se a mo’ di fiction, sono quasi già preparati.  Il mio sogno ovviamente sarebbe quello di farne un film. Vorrei che fosse tra le mani del mio regista preferito, Ozpetek. Perché io scrivo tra i due mondi, mi sembra che lui, per tipologia, possa capire il detto e il non detto, il sentito e il reale. Lo consegnerei comunque nelle mani di qualcuno che sappia capire come metterci mani. Si, mi piacerebbe tantissimo.

by Fabrizio Stagnani

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