Dietro la maschera di Amélie Nothomb

by Felice Sblendorio

È un fiume in piena inarrestabile Amélie Nothomb: stravagante, esplosiva, ammaliante. La scrittrice belga, che è dentro tutti gli aggettivi più complessi e faticosi da vivere e sopportare, è una delle voci più interessanti della narrativa europea: pochi riescono a raccontare la crudeltà e il male intrinseco dell’animo umano, il marciume incancrenito dei dolori e dei fantasmi della vita come fa lei.

Dopo ventisette romanzi all’attivo, 16 milioni di copie vendute nel mondo e la traduzione in 45 lingue, arriva anche in Italia con la traduzione di Sara Manuela Cacioppo – dopo l’uscita in Belgio nell’estate del 2018 – un particolarissimo libello che racchiude una lunga intervista alla Nothomb a cura di Michel Robert, autore di libri di interviste col danzatore Maurice Béjart e il designer Jacques Martin. Il volume, pubblicato da Voland, la casa editrice romana che dal 1997 pubblica in Italia i  romanzi della scrittrice, è un tassello imperdibile per gli appassionati della voce dell’ormai classicoIgiene dell’assassino”.

Difficile racchiudere in poche pagine privato e professionale, fantasie e narrazione, capacità illimitata di interessare e turbare. In quasi cento pagine Robert, che incontra casualmente per la prima volta la Nothomb a Bruxelles nel 1995 e la frequenterà fino al 2001 per questa conversazione, riesce a sganciare l’arte dell’intervista letteraria da quella sensazione autoreferenziale e scontata che, molto spesso, è tipica di questo genere. Pericolo superato alla grande, poi, con una narratrice dall’estro complesso come la Nothomb, sempre pronta e disponibile a farsi intervistare, a scandalizzare involontariamente, a narrare con le parole, i gesti e la presenza fisica l’incanto misterioso di quella scrittrice belga sopravvissuta, fra le altre cose, a quel suicidio infantile a tre anni.

Tutto così diventa epica, evocazione, bollettino di orrori, stranezze e manie. Narrazione eccedente, scaturita dalla consapevolezza che quello dello scrittore, capace di dileguare ipocrisie e sconfiggere finzioni, è il mestiere più impudico del mondo. Una regola di base che ha fatto sua nella scrittura e nelle relazioni pubbliche tanto da non sottrarsi a nulla: dalla vita alla morte, dalle stranezze sul personaggio alla fede fino alla famiglia, toccando l’Europa, l’anoressia, la politica e l’amore. Le manie sul proscenio sono protagoniste, dalla passione per il disgusto al ripugnante come contrasto effettivo fino alla bruttezza che, ammette, ama più di ogni altra cosa.

Ogni tema toccato dalla Nothomb è un pezzo di vita vissuto assieme a lei e divorato con le passioni e l’entusiasmo bulimico di chi ha occhi e sguardi capovolti sull’esistente e sullo scibile umano. “La bocca delle carpe” (Voland Edizioni, 128 pagine, 15 euro), nelle pagine più dense e belle, cerca di separare e far incontrare contemporaneamente la narrazione e l’esistenza di Amélie Nothomb per entrare nel suo mondo più identitario, quello della letteratura, denso e scuro di profondità inviolate. È lì che la vera essenza, la vocazione condizionata dai fatti della vita e la scrittura misteriosa, che lei paragona alla “visione dei passi nella neve”, trova l’unica (vera) forma e purezza. Una purezza candida prima di entrare in contatto con l’orrore del mondo: che tutto scioglie, sporca, rivolta.

“Tutto ciò che è puro si scioglie. È proprio un fenomeno umano. Non appena vi è qualcosa o qualcuno di bello e puro, l’ostinazione con cui tutti cercano di sporcarlo, di trovargli qualcosa di brutto, di escogitare un modo per parlare male di lui, ecco quello che mi colpisce profondamente. Credo che l’umanità sia davvero fatta così: abbassa le persone al suo livello, le rende peggiori per poterle finalmente amare. Perché possiamo amare solo chi è vile quanto noi. È proprio disgustoso”.

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