I consigli di Velasquez: “I cani di Belfast”, un signor crime per Sam Millar

by Francesco Berlingieri

Sam Millar
I cani di Belfast
(Milieu edizioni – 228 pagine – 16,90)

È così quando si legge. Che, a volte, ti capita qualcosa di talmente coinvolgente da togliere tempo a tutto il resto. Che mangi in fretta, ti addormenti tardi, ti svegli col pensiero. Di sapere com’è che va a finire. Anche se poi, in realtà, sai già come finisce. Capita. Che giunto all’ultima parola dell’ultima pagina chiudi il tuo libro. E sprofondi in un’assenza che sa di disorientamento. Di abbandono, più o meno. E provi a ricominciare, a far scorrere la pila dei libri che ti aspettano sul comodino. Ma, per un bel pezzo, niente fa più al caso tuo. Niente è egualmente soddisfacente, avvincente, esaltante, etc. A prescindere dal valore intrinseco di ciò a cui ti approcci. Non è mai colpa di chi sopraggiunge, è sempre colpa di chi lo ha preceduto. In sostanza.

Ecco. Sam Millar non se lo meritava. Non meritava – nella sua prima prova da autore crime – di assumere l’antipatico ruolo dell’autore del libro che viene dopo. Perché ho letto “On the Brinks” diverso tempo fa e l’ho immediatamente posizionato nel circolo ristretto di quei libri che si consigliano a colpo sicuro, senza possibilità d’errore e senza tema di smentita. (Perché se non ti piace l’epopea di un rivoluzionario irlandese che, dopo aver sfidato il carcere con Bobby Sands finisce a compiere la rapina più clamorosa nella pur turbolenta storia degli Stati Uniti, è chiaro che il problema sei tu!). E perché, cinque minuti dopo che Davide dalla sua libreria torinese mi aveva scritto: “È uscito il nuovo di Millar!”, avevo già una quindicina di prenotazioni. Fremevo dalla voglia di averlo materialmente disponibile. Ho atteso. E l’ho avuto mentre aggredivo “M”. È stato sfortunato. Ma, da buon repubblicano d’Irlanda, ci deve essere abituato, alla sfortuna. Fatto sta che l’ho trattato male: fino a cinquanta pagine dalla fine, ho letto ogni singolo periodo nel giusto ordine – giuro! – conservando pochissimo della trama, dei personaggi.

Mi sono lasciato accompagnare dal protagonista, l’investigatore privato Karl Kane, e dalla sua Noemi, senza dare un vero senso logico al tutto. Una cascata di parole. Come per dimostrare a me stesso che ne ero capace. Fino alle cinquanta pagine finali, lette nella santa ricreazione dal mondo di una domenica pomeriggio coi tre punti del Foggia incassati, mi aveva colpito solo lo stile: truce, efferato, “pulp” (come direbbe qualcuno). Derek Raymond, pensavo. La brutalità del male raccontata con dovizia di particolari. Poi, quando la mia attenzione ha smesso di vagare altrove e si è condensata sull’immanenza, ai miei occhi è apparso un intreccio sapiente e fortissimo. Tanto che adesso, per me, “I cani di Belfast” ha la forma di un imbuto. O di una clessidra. Con la velocità nel precipizio finale. Ho chiesto l’amicizia a Sam Millar, su Facebook. L’ha accettata. Vorrei dirgli – e forse glielo dirò – che “I cani di Belfast” è un signor crime, totalmente sopra le righe, classificabile tra quegli inclassificabili episodi letterari – o cinematografici – in cui l’esagerazione, finanche la mancanza di verosimiglianza con la realtà, si tramutano da limite a piacevole diversivo. Insomma, ci sta. E poi nessuno scrive più gialli senza una caterva di morti. Andando a stringere: leggete Millar. E disdegnate dalle seconde scelte.

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