I consigli di Velasquez: “Il taglio”, quello che manca alla nostra letteratura

by Francesco Berlingieri

Anthony Cartwright
Il taglio
(66th and 2nd)

153 pagine, 15 euro


Anthony Cartwright è un ragazzo del Black Country.
Ha quarantacinque anni. Ed un problema con me. Anzi, per amor della correttezza: io ho un problema con lui.

Non solo perché Anthony Cartwright scrive di quel che vorrei scrivere. Ma soprattutto perché la sua scrittura è tutto quello che manca alla letteratura civile del paese in cui vivo.
Dalla prospettiva del bancone di una libreria lo si nota in maniera assai evidente: i nostri cinquantenni comprano e leggono altri cinquantenni. O giovani sessantenni. Nel cui lavoro si divertono a rimandare il proprio privato, fatto lievitare fino alla dimensione del fenomeno sociale. Cartwright è l’esatto opposto di tutto questo. È il drammaturgo del collasso collettivo di una comunità. È il fumo sulle rovine. È il segnale di naufragio. È l’Inghilterra fuori dalla Londra degli studenti e dei ristoranti alla moda. L’Inghilterra delle Midlands. Nelle sue parole i sopravvissuti sono eroici costruttori di legami. O eroi che hanno deciso di farla finita. Nei suoi testi riecheggiano ancora i manganelli dei battaglioni a cavallo, i colpi sugli scudi, le cariche della polizia della Thatcher. La difesa ad oltranza di una popolazione di fantasmi sconfitti: dalla dismissione dei pozzi di carbone come dalla modernità. Anime in pena. Rabbiose. Disperate.

Iron Towns, uscito un anno fa (sempre per la meritoria 66th and 2nd), è stato una rivelazione. Un uppercut inatteso e, forse per questo, assai doloroso.
Il taglio lo insegue, ripartendo dal medesimo protagonista multiplo: la working class frantumata e disillusa, defraudata dei riferimenti e orfana di prospettive.
Nelle Città di Ferro – descritte attraverso lampi implacabili come squarci su una tela – dignitosi subalterni sono dipinti nella loro lotta contro l’oblio, contro la dimenticanza che è propria dei vincitori. Qui, ulteriormente ridotti ai minimi termini, nell’impari sfida alla marginalizzazione.
Il taglio è un romanzo breve ai tempi della Brexit. È l’altra faccia della medaglia – la faccia della frustrazione, del rancore disorientato, del titanismo degli ultimi – sullo sfondo di un paese alle prese col pensiero stupendo di un nuovo glorioso isolamento.

Perché capita che il mondo di sopra – sull’onda di una mai provata superiorità intellettuale – si limiti a biasimare: che il voto referendario diventi, per gli amanti delle aperture di mercato, un semplice esercizio di populismo buono per chi specula sull’ignoranza del popolo bue. Cartwright, fedele alla lezione di David Peace, di Jonathan Coe, di Ken Loach, ci mostra la prospettiva che diverge: ciò che non è mainstream. E neppure appetibile, a ben guardare. Non c’è giudizio, da parte sua. Non c’è mitologia. Non c’è epica, stavolta.

C’è una brillante giornalista di Londra chiamata, dall’ambizione professionale, a documentare gli istinti di quella che di solito si definisce “la pancia della nazione”. C’è un ex-operaio arrabbiato e, nonostante la varietà del suo privatissimo clan familiare, desolatamente solo. C’è un mondo in dissolvenza, se non già dissolto, i cui valori sono stati stravolti e abbandonati. Ci sono avvicinamenti pericolosi, che sanno d’amore e di passione, che possono essere più divisivi d’una secessione. Il taglio è l’ultima scena di Underground. Quella dei continenti alla deriva. Della deriva dei sentimenti. È ciò che è inevitabile e, alla fine, accade. Senza dare risposte.

Cartwright è uno shakespeariano cantore del proletariato industriale. Uno che affonda la propria lirica nella ruggine della storia. Un quarantacinquenne che non parla di innamoramenti tardivi, di tradimenti, di divorzi. Ed è per questo che uno così manca alla nostra letteratura. Per questo che io ho un problema con lui. E con quelli come lui.

by Francesco Berlingieri

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