Il veleno dei diavoli della bassa modenese: l’inchiesta di Pablo Trincia

by Felice Sblendorio

“Una storia vera”: se non ci fosse questo sottotitolo rosso al centro della cover scura animata da un girotondo incerto di bambini, tutti penserebbero a una fiction. “Veleno” (Einaudi Stile Libero, pagine 296, euro 18.50), invece, scritto dal giornalista Pablo Trincia, non ha nulla di inventato o distorto. Il libro, nato da una costola del podcast realizzato con Alessia Rafanelli e pubblicato nel 2017 in otto puntate su repubblica.it, parla della vicenda dei diavoli della bassa modenese, uno dei più grandi casi di panico satanico e falso ricordo che l’Italia intera ricordi.

Tutto parte e si sviluppa fra il 1997 e il 1998, la provincia di Modena come scenario e due piccoli paesi (Massa Finalese e Mirandola) come epicentro dell’orrore: sedici bambini vengono tolti ai genitori perché accusati di averli picchiati, abusati sessualmente, tumulati vivi, utilizzati per riti satanici e omicidi. La scia di veleno, però, parte nel 1977: i sospetti arrivano con ferocia sui Galliera, una famiglia disagiata della zona già seguita dai servizi sociali. Dario (nome di fantasia), uno dei loro figli che già da tempo viveva in un altro nucleo familiare,  confessa alcuni “scherzi sotto le lenzuola” di Igor, suo fratello naturale. Sarà l’inizio e la causa di una tempesta epocale: cinque processi, venti persone indagate e condannate, una mamma suicida (scriverà prima di lasciarsi andare “Sono innocente”), altri morti o colpiti da malori (come don Giorgio Govoni, accusato di essere il leader di questa “setta”).

Dopo vent’anni, l’inchiesta dell’inviato dei programmi “Le Iene” e “Chi l’ha Visto” riapre il caso e racconta le testimonianze di alcuni di quei bambini che oggi confessano di aver subito pressioni e condizionamenti dagli assistenti sociali e dagli psicologi. Il falso ricordo in una storia che incrocia la giustizia, la psicologia, il modo di verificare e sorvegliare gli affidi, i ricordi manipolabili. In un viaggio al cardiopalma, Trincia racconta dettagli inediti e ricostruzioni profonde per cercare gli orchi della bassa modenese che, forse, non si nascondevano solo fra i banchi degli imputati.

bonculture ha intervistato Pablo Trincia. 

Dopo un podcast di grande successo, un libro: perché uno spazio di carta, dopo quello del web, per questa vicenda?

Io in realtà non volevo scrivere un libro. Vengo da un altro mondo che è quello della tv e dell’audio, quindi sono più legato alla comunicazione digitale che a quella cartacea, ma quando Einaudi mi ha contattato mi ha subito convinto. Quella di pubblicare un libro per me è stata un’esperienza che non avevo mai fatto e che ho deciso di realizzare perché avevo ancora tantissimo materiale che non avevo utilizzato per il podcast. Questo è stato davvero l’elemento determinante: c’erano ancora molti documenti e materiali pronti a chiarire questa storia. 

Venti persone accusate di essere pedofili e satanisti a danno di 16 bambini. Quando, in questa storia, arriva il granello di sabbia che inceppa la verità ufficiale e innesca una contronarrazione?

Sin dall’inizio ci fu una contronarrazione. I principali autori furono due persone, Oddina Paltrinieri e Don Ettore Rovazzi, che cominciarono a smontare con documenti precisi tutta questa teoria. Già all’epoca si era formata questa contronarrazione che non aveva nessun tipo di potere se non quello di preparare il terreno per quello che è successo negli anni successivi quando siamo arrivati noi: grazie a quel lavoro abbiamo avuto la possibilità di avere una memoria storica di tutto quello che era successo. Loro due conoscevano i fatti e le persone, elementi per noi indispensabili per ricostruire il tutto. Nel 1998 questa contronarrazione, che con il nostro lavoro è diventata fruibile a tutti, prese spazio sin da subito. Anche i giornali locali, dopo aver seguito la verità della procura, cominciarono in breve tempo a porsi le domande giuste. 

Lei in questo libro intervista Dario, il “bambino zero” che fece partire tutta questa inchiesta e che ha confessato in “Veleno” di aver subito un lavaggio del cervello da parte degli psicologi. Com’è stato possibile impiantare nella testa di quei bambini una storia così assurda e complessa?

Come hanno fatto? Quattro di loro oggi sostengono di essere stati manipolati, mentre due ci raccontano in particolare di come sono stati manipolati o di come hanno tentato di manipolarli: ad esempio facendogli credere che quelle cose erano successe ma erano loro a non ricordarle, oppure inducendoli a dubitare della loro stessa memoria, che è una cosa che la psicologia e la letteratura scientifica ha ampiamente dimostrato come tesi possibile. Il sospetto è che abbiano fatto questo. Dico sospetto perché ci sono testimonianze a riguardo che raccontano quello che succedeva in quelle stanze: molto spesso veniva comunicato ai bambini quello che a loro era successo e si cercava una conferma. 

Lo spettro del falso ricordo…

Quella è una deviazione della memoria che ci porta a creare dei ricordi finti che non riesci più a distinguere da quelli veri. Ma in questa storia furono sbagliate anche le modalità di ascolto dei bambini: se si fanno delle domande sbagliate si rischia di piantare prima dei dubbi e poi dei falsi ricordi. 

Lei parla di domande sbagliate e le cassette che ha ritrovato con gli interrogatori dei bambini effettivamente risultano anomale, soprattutto per l’atteggiamento scontato della sussistenza del reato. Tutto quello che non si dovrebbe fare secondo la Carta di Noto, è così? 

Esattamente, anche perché il ruolo dello psicologo non è quello di indagare se una cosa sia accaduta o meno, ma è quello di fare terapia oppure comprendere – se è uno psicologo giuridico – se il bambino è credibile, se il bambino può testimoniare. Lo psicologo dovrebbe analizzare il vissuto del bambino, le sue capacità di memoria e ricordo e l’eventualità di inquinamenti o suggestioni. Non è il ruolo dello psicologo scavare nella mente delle persone per scoprire se ci sono notizie di reato. Quello è il compito degli organi inquirenti. 

Un bambino dice: “va bene quello che ho detto?”. Perché una frase del genere non ha allarmato nessuno?

Non saprei, sinceramente. Quando io ho sentito quella frase sono saltato sulla sedia. Mi sono detto: “cazzo, ma ti rendi conto di quello che ha detto questo bambino?”. Evidentemente si è scelto escludere tutte quelle cose che non si volevano sentire e si è tenuto solo quello che piaceva. Si chiama atteggiamento verificazionista, questo.

Crede che ci furono delle leggerezze nelle indagini?

Secondo la nostra ricostruzione sì. Secondo noi le indagini sono state inquinate da una metodologia sbagliata, da più approcci superficiali. 

Alla fine di questo libro c’è solamente una domanda: perché? Lei non si avventura in sentenze certe, ma una pista la istilla nella mente del lettore. Alla fine degli anni Novanta ci fu una forte attenzione su questo tema perché furono varati fondi per sostenere questo genere di eventi traumatici. Follow the money?

Anche. Però in una storia così grande non c’è mai una sola componente. Forse ci si è lasciati andare per fare carriera, forse per guadagnarci. Io però non credo che le persone coinvolte partirono con l’idea di fare soldi. Io sostengo sia stata una cosa maturata nel tempo e poi scaturita nella brutta vicenda che oggi racconto. Il vero veleno è quello da cui ti dovresti tenere lontano dal momento in cui sei coinvolto in una storia del genere, perché se lasci anche una sola goccia di dubbio nella testa degli altri, soprattutto dopo le morti e il dolore di bambini, sei finito. 

Questo libro ha fatto molto discutere: da alcuni mesi è nato il comitato “Voci vere: vittime della bassa modenese” per dissentire dalla sua “ricostruzione distorta e unilaterale”. In un comunicato le ricordano delle 14 sentenze di condanna per abusi sessuali e delle vittime che non hanno ritrattato. Lei come risponde?

Noi abbiamo raccontato tutto quello che è successo in questa vicenda non inventando nulla. Abbiamo anche raccontato la gente condannata per pedofilia. Detto ciò: ci sono cinque processi, parte del secondo e degli ultimi tre assolvono tutte le persone coinvolte e dichiarano i bambini non credibili. In alcune sentenze viene addirittura scritto che i bambini sono stati suggestionati: lo dicono le sentenze, non Pablo Trincia. In questi processi, inoltre, ci sono persone che vengono condannate nel secondo e poi assolte nel quarto processo per delle accuse fatte dalla stessa bambina. Noi abbiamo raccontato tutto questo, anche le confessioni dei minori che dichiararono di aver ucciso quindici bambini in una settimana. Dove sono le prove? Oltre queste domande non voglio polemizzare. Rispetto tutti, ma a chi dice che secondo Trincia la pedofilia non è nociva per i bambini non ho nulla da dire. 

Questa storia è ritornata attuale anche grazie all’indagine “Angeli & Demoni”, meglio nota come il caso Bibbiano. Lì è indagato proprio Foti e il suo centro da cui provenivano due psicologhe del caso di “Veleno”. C’è un sistema solido e coeso che gestisce il settore degli affidi? 

Questo è quello che sembra, anche se il punto centrale forse non è quello degli affidi ma quello della psicologia. Il tema è più largo e riguarda i professionisti accreditati perché non c’è nessun controllo, nessun monitoraggio serio. Quello degli affidi è un circuito chiuso e poco controllato. La politica su questo tema è sempre stata superficiale. 

Cosa dovrebbe fare?

Occuparsene in modo serio e stabilire innanzitutto delle linee guida. Possiamo pensare che solo chi aderisce ad un certo protocollo possa fare questo lavoro? È possibile richiedere un organo di controllo che verifichi gli affidi, che guardi cosa c’è nel tribunale dei minori, che verifichi se ci siano conflitti d’interesse? È possibile? Questo sarebbe già un passo in avanti. 

Questa, forse, resterà l’inchiesta più difficile della sua vita. Il momento di maggior disperazione?

Quando una ragazza ci è venuta a cercare e ha capito quanto le mancava la madre che si era suicidata: voleva rivederla. 

Da padre di due bambini, invece, qual è stata la cosa più difficile da mandar giù? 

Da padre è stato tutto un dramma. La cosa più difficile, però, è stata comprendere quanto siano fragili i nostri legami familiari, quanto non siano impermeabili: c’è sempre qualcosa o qualcuno che può arrivare, distruggere e mettere in pericolo tutto. Questo ci dovrebbe allarmare. 

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