La “normale” modernità dell’Olocausto secondo Bauman

by redazione
auschwitz

“Modernità e Olocausto” di Zygmunt Bauman è forse il libro fondamentale sulla Shoa. Il libro che andrebbe quasi mandato a memoria, negli istituti superiori. Il libro che non può non essere letto.

Per il compianto sociologo, l’Olocausto è inestricabilmente connesso alla logica della modernità così come si è sviluppata in Occidente. Nella spietata analisi di Bauman, quanto accadde nei campi di sterminio non costituisce una sorta di “malattia” sociale, ma un fenomeno legato alla condizione “normale” della società.

“Il razzismo è inevitabilmente associato alla strategia dell’allontanamento”. Se le condizioni lo permettono, il razzismo esige, a suo avviso, che la categoria dei trasgressori sia rimossa dal territorio occupato dal gruppo che essa minaccia.

Se tali condizioni non sussistono, il razzismo esige che la categoria dei trasgressori venga fisicamente sterminata. Espulsione e distruzione sono due metodi intercambiabili di allontanamento.

Pubblichiamo alcuni stralci di un testo da fare intimamente proprio.

Antisemitismo latente

“La maggioranza dei tedeschi non era costituita da antisemiti fanatici o «paranoici», bensì da antisemiti «moderati», «latenti» o passivi, per i quali gli ebrei erano divenuti un’entità «spersonalizzata», astratta ed estranea, che si collocava al di là della solidarietà umana, e la «questione ebraica» un problema legittimo di politica statale che richiedeva una soluzione”. (..)

Essendo le élite locali indifferenti o ostili alla sfida della modernizzazione, gli ebrei – accettati come culturalmente estranei – costituivano una delle poche categorie che sfuggivano alla presa soffocante dei valori aristocratici, ed erano perciò capaci e desiderosi di sfruttare le opportunità create dalla rivoluzione industriale, finanziaria e tecnologica avvenuta ad occidente. La loro iniziativa, tuttavia, incontrò la totale ostilità dell’opinione pubblica dominata dall’aristocrazia. Dopo aver condotto un accurato studio sull’industrializzazione in Polonia nel diciannovesimo secolo (processo non dissimile da quelli avvenuti nel resto dell’Europa orientale), Joseph Marcus è giunto alla conclusione che l’avvento dell’industria fu vissuto dalle élite locali, dominate dalla nobiltà, come una calamità nazionale. (…)

La tecnologia

“Mentre alcuni imprenditori ebrei erano impegnati nella costruzione di linee ferroviarie, un eminente economista polacco, J. Supinski, lamentava il fatto che «le ferrovie rappresentano un abisso in cui vengono gettate enormi risorse, delle quali non resta altra traccia che la massicciata e i binari giacenti su di essa».

Se gli ebrei costruivano stabilimenti industriali, i proprietari terrieri li accusavano di distruggere l’agricoltura, che a loro parere mancava di manodopera. Quando le fabbriche cominciarono a funzionare, per l’élite letteraria e sociale polacca i loro proprietari furono non soltanto oggetto di odio, ma anche di commiserazione, avendo rinunciato a una vita di delizie campestri e di libertà e piaceri romantici per trasferirsi nelle desolate vicinanze di una fabbrica, che rende l’uomo schiavo e lo distrugge. (…)

La concorrenza di un nuovo potere

Gli ebrei indigeni, che sotto gli occhi della sconcertata nobiltà si stavano trasformando in borghesia ebraica, minacciavano le élite esistenti in diversi modi. Essi impersonavano la concorrenza di un nuovo potere sociale basato sulla finanza e sull’industria nei confronti di quello vecchio fondato sulla proprietà terriera e sull’autorità sociale ereditaria che ne derivava.

Essi incarnavano inoltre il venir meno dello stretto rapporto un tempo intercorrente tra la distribuzione del prestigio e quella dell’influenza: un gruppo sociale subordinato, tenuto in infima considerazione, saliva verso posizioni di potere servendosi di una scala recuperata nella pattumiera dei valori di scarto. Per la nobiltà, desiderosa di conservare la leadership nazionale, l’industrializzazione rappresentava un duplice pericolo: per ciò che veniva fatto e per chi lo faceva.

L’iniziativa economica degli ebrei costituiva nello stesso tempo un minaccia al dominio sociale esistente e un colpo assestato all’ordine sociale complessivo, che quel dominio sosteneva e da cui era sostenuto. Risultava facile, pertanto, identificare proprio gli ebrei con la nuova confusione e la nuova instabilità. Essi erano percepiti come una forza sinistra e distruttiva, come agenti del caos e del disordine: tipicamente, come sostanza glutinosa che rende incerti i confini tra cose da tenere separate, che rende scivolose tutte le scale gerarchiche, fonde ogni solidità e profana tutto ciò che è sacro. (…)

C’è un evidente paradosso nella storia del razzismo, e del razzismo nazista in particolare. In quello che di tale storia è di gran lunga il caso più clamoroso e meglio conosciuto, il razzismo fu uno strumento di mobilitazione dei sentimenti di ansia antimodernisti e risultò palesemente efficace soprattutto grazie a questa caratteristica.

Il fantasma della razza

Adolf Stöcker, Dietrich Eckart, Alfred Rosenberg, Gregor Strasser, Joseph Goebbels e praticamente tutti gli altri profeti, teorici e ideologi del nazionalsocialismo utilizzarono il fantasma della razza ebraica come anello di congiunzione tra le paure delle vittime passate e potenziali della modernizzazione – paure che essi si incaricarono di articolare – e l’ideale società “völkisch”; del futuro, che essi proponevano di creare con l’obiettivo di prevenire ulteriori progressi della modernità.

Nel loro appello all’orrore – profondamente radicato – per lo sconvolgimento sociale che la modernità preannunciava, essi identificavano quest’ultima con il dominio dei valori legati all’economia e al denaro, e attribuivano alle caratteristiche razziali ebraiche la responsabilità di un tale implacabile attacco ai modi di vita e ai valori umani definiti come “völkisch”.

L’eliminazione degli ebrei veniva dunque presentata come sinonimo del rifiuto dell’ordine moderno. Ciò fa pensare a un carattere fondamentalmente premoderno del razzismo, alla sua naturale affinità, per così dire, con le emozioni premoderne e alla sua funzionalità selettiva come veicolo di tali emozioni.

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