L’eroica rinuncia e la fuga in Puglia di Celestino V nel saggio di Vincenzo D’Errico

by redazione

Ma siamo proprio sicuri che il dantesco uomo del gran rifiuto sia Celestino V? Non ne son convinti Petrarca e Boccaccio, ma la terzina dantesca insegue Celestino V da oltre sette secoli. Non ne è convinto neanche Vincenzo D’Errico, autore del libro “La fuga in Puglia di Celestino V” (Aracne, Roma 2019), con la prefazione di Gino Capozzi  e l’introduzione di Maurizio Tardio. Celestino, per l’autore, è piuttosto il protagonista di una “eroica rinuncia”, secondo una bella definizione di Paolo VI.

Ma il filo conduttore del libro è il Gargano, che Celestino percorre affannato in fuga dagli sgherri del suo successore, Bonifacio VIII. Il nuovo papa teme che Celestino, tornato ad essere Pietro dal Morrone, possa ritirare le dimissioni, invalidando la sua elezione. Per questo il vecchio eremita deve essere neutralizzato. Ne ordina la cattura, aiutato dal re di Napoli. Celestino lascia l’Abruzzo e gli eremi in cui ha trascorso una vita e fugge.

La destinazione è la Grecia, dall’altra parte del mare, al sicuro dal papa e dal redi Napoli. Aiutato dai membri del suo Ordine, innanzitutto i frati del monastero celestiniano di Apricena, Celestino attraversa i boschi, i prati, le valli del Gargano in direzione Vieste, dove lo attende un vascello che lo porterà sull’altro lato dell’Adriatico. A Vieste, invece, un violento nubifragio costringe l’imbarcazione a tornare indietro. Per Celestino è un segno del destino. Non prosegue la fuga, ma attende che gli uomini di Bonifacio lo vengano ad arrestare. Il libro di D’Errico ripercorre proprio le ultime settimane da uomo libero del monaco che fu papa, affannato e incredulo dal dover scappare proprio dalla Chiesa cui ha dedicato tutta una vita. In una serie di flashback Celestino ricorda l’annuncio dell’elezione, la sua incoronazione a Collemaggio, l’istituzione della Perdonanza, l’arresto, il drammatico colloquio con Bonifacio prima della reclusione.

Il libro – nella forma del saggio romanzato – affronta anche la controversa questione della canonizzazione. Nel 1310 Clemente V proclama santo il monaco Pietro dal Morrone, con il titolo di confessore, e non il papa Celestino V. E’ santo l’eremita, non il Papa, perché al momento della morte Pietro non era più Celestino. Un cavillo formale: la canonizzazione è fortemente voluta dal re di Francia e Clemente, che ha trasferito la Corte pontificia ad Avignone, non può dire di no. Solo molto secoli dopo il calendario romano aggiunge al nome di Pietro quello di Celestino, in un tardivo riconoscimento della dignità pontificia del “monaco che fu papa”.  Scrive Maurizio Tardio nell’introduzione: “La vicenda di Celestino V non è vicenda di un rifiuto, ma è la consapevolezza di una incapacità a gestire situazioni complesse. Pare un insegnamento per moderni governanti che, al contrario del papa semplice, cercano il potere e lo gestiscono con troppa faciloneria”.

Il testo, arricchito da una robusta appendice, si chiude con una forte suggestione. “Il corpo di Pietro da Morrone, rivestito degli abiti pontificali e della stola donata da Benedetto XVI, è conservato a L’Aquila, nella “sua” chiesa di Santa Maria di Collemaggio. Il mare del Gargano e la spiaggia di Vieste conservano, invece, il suo ultimo sguardo da uomo libero”.

Vi proponiamo, l’introduzione al libro di Maurizio Tardio e la nota dell’autore.

La vicenda di Celestino V non è vicenda di un rifiuto, ma è la consapevolezza di una incapacità a gestire situazioni complesse. Pare un insegnamento per moderni governanti che, al contrario del papa semplice, cercano il potere e lo gestiscono con troppa faciloneria.

L’ascesa e la caduta di un uomo, vocato alla preghiera e ritrovatosi a governare la Chiesa, è affascinante per la doppia modalità di una scelta: quella di rinunciare alla preghiera e, successivamente, di abbandonare la Cattedra di Pietro. In entrambi i casi, Pietro-Celestino-Pietro, commette un abuso verso se stesso. Lo fa, forse, per un bene superiore: in un primo momento per portare pace tra le diverse fazioni che, ieri come oggi, si muovevano dietro una elezione papale. E in un secondo atto per ridare una guida a una Chiesa sbandata, consumata dalle lotte intestine, alle quali il Papa venuto dagli eremi non sarà in grado di mettere freno.

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Celestino V quando rinuncia alla sua condizione di “uomo che prega”, si consegna al destino di un mondo crudele, affamato di potere, ambiguo, decisamente poco in sintonia con la bellezza del Creato. Un mondo che la preghiera non riesce a governare, perché la preghiera di Pietro-Celestino-Pietro è domanda che si conforma alla volontà divina, al Padre infinitamente buono, al quale, come il profeta Elia, si rivolge per avere risposte; mentre le trame della curia romana si aggrovigliano in guerre di potere e di sopraffazione della parte avversa. Perché la Chiesa dei tempi di papa Celestino V non è conciliante (ammesso che lo sia mai stata). Non è assemblea, ma arena, dove si aliena l’incontro con Dio, per perseguire quello con il patrimonio e la potenza terrena.

Dunque, Pietro-Celestino-Pietro è vittima del suo tempo. Non è in grado di governare le gerarchie ecclesiastiche, perché non gli interessa il potere, se non come servizio verso la Chiesa. Una visione capovolta rispetto ai suoi confratelli che vedono la Chiesa al servizio del potere e dell’appagamento delle ambizioni personali. Fa tenerezza la sua storia, soprattutto perché è bersaglio di fake news ante litteram, delle “malignità della plebe” e addirittura bollato dal sommo poeta come “colui che fece per viltade il gran rifiuto”, trovandosi impallinato anche dal fuoco amico, o meglio da quelli che considerava amici. La sua storia è quasi un monito che, però, pare non essere stato pienamente compreso, se si guarda alla vicenda di papa Benedetto XVI, rispetto alla quale Celestino è tremendamente moderno e attuale. Com’è attuale il resoconto e la ricostruzione del suo rifiuto, e della successiva fuga, nelle pagine di Vincenzo D’Errico.

La modernità di una vicenda del Duecento è nella suddivisione dei capitoli, che rendono il racconto simile a una fiction a puntate, di quelle che incollano al teleschermo e permettono di conoscere figure e figuri, senza mai perdere il filo di una narrazione che non è mai un processo a una decisione presa, ma un resoconto verosimile di una cronaca che affascina oggi come ieri, perché è storia di debolezza e di totale abbandono alla volontà umana e che per certi versi offre una luce nuova dei due protagonisti: Celestino V e Bonifacio VIII, il primo rappresentante di una Chiesa medievale, l’altro che apre a quella rinascimentale, che sfocerà nella controriforma per riprendere un primato messo a dura prova dalle spinte del protestantesimo; così come quella di Celestino doveva essere argine al proliferare degli ordini religiosi che non erano sempre in sintonia con le gerarchie romane, perché pericolose al loro alto tenore di vita. Ed è qui un altro elemento di modernità del racconto, se si pensa agli sforzi di papa Francesco per ridimensionare lo sfarzo presenzialista di alcuni cardinali di Santa Romana Chiesa.

Pietro-Celestino-Pietro è uomo del suo tempo e subisce l’influenza di un contesto sociale ed economico che non riesce a governare, perché incapace di comprendere la voglia di potere degli uomini, lui che credeva che la vita fosse una instancabile ricerca di Dio, che è padre misericordioso. Cerca, ingannandosi, la misericordia negli uomini, ma trova solo strumentalizzazioni al suo agire. Ecco il suo fallimento come uomo di Chiesa, ma è in parte riabilitato nel racconto di Vincenzo D’Errico.

Questo libro è nato sull’onda della curiosità: la scoperta che i luoghi dove papa Celestino V ˗ tornato frate Pietro dal Morrone ˗ ha vissuto le sue ultime giornate da uomo libero, sono luoghi a me conosciuti, “cari al cuore e allo sguardo”, a pochi chilometri dalla mia città di Foggia: Apricena, la Foresta Umbra, Rodi Garganico, Vieste.

Non ho certo la pretesa di aver scritto un saggio storico, ma sono sicuro di aver scrupolosamente tentato di coniugare le fonti che sono riuscito a rintracciare alla mia fantasia, documentando il documentabile e immaginando il resto. Nel ritratto dei personaggi, che pure si attiene alla iconografia classica, così come nel discorso di Celestino sulla spiaggia di Vieste e nel suo drammatico colloquio con Bonifacio VIII ad Anagni ˗ con la descrizione degli ambienti dove si svolsero le azioni ˗ prevale la mia immaginazione e l’emozione suscitata, nell’unire tutti i pezzi della sua vita, dal rievocare l’atmosfera di quell’epoca e quasi percepire i sentimenti che dovette provare un Papa, divenuto poi Santo, costretto alla fuga verso la Grecia.

Un ringraziamento speciale va all’amico e collega Loris Castriota Skanderbegh per l’aiuto e i consigli preziosi da lui ricevuti nella revisione di quest’opera.

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