M il figlio del secolo. Non è colpa di Scurati se quegli anni sono epicamente formidabili

by Francesco Berlingieri

Il primo a parlarmene fu un amico. “Ne sai qualcosa?”. Risposi che no, non ne sapevo niente. Poi fu la volta di una richiesta, giunta via Whatsapp. E, ancora, un secondo amico di passaggio. “Che mi dici di M?”. Io, perso nei cunicoli scarsamente illuminati delle mie fisime da Sam Millar o Charles Brand, cronicamente disabituato alla mescita dei best sellers d’occasione, ho reiterato il mio “niente”.

Fino alla sera dello Strega. Che per me è cominciata in bagno, scorrendo gli stati di Facebook dei miei contatti. La polemica preventiva era di Marco. Contro l’autore, in primis. E poi contro il libro. Mi fido dei giudizi letterari di Marco. Ho visto Antonio Scurati vincere per distacco il suo premio. Ho notato la spocchia fastidiosa contro la quale mi avevano messo in guardia. E l’indomani avevo, sul banco, la mia copia del Figlio del secolo. In due giorni avevo macinato trecento pagine. E la mattina dopo mi sono svegliato col pensiero di consumare le residue trenta. Chiuso e riposto sullo scaffale, risalgo la scia delle discussioni. Partendo dall’incontrovertibile dato che mi è piaciuto. E molto.

Di cosa avrei dovuto aver paura? Di un romanzo storico sull’origine del fascismo narrata in prima persona da Benito Mussolini? Di un romanzo italiano che, per la prima volta da anni, si pone un orizzonte letterario esterno all’intimità delle crisi private dei suoi esangui protagonisti? Ma che sciocchezze! Da Piazza San Sepolcro alla Marcia su Roma, il nostro paese è stato attraversato e scosso da una gigantesca febbre. I suoi effetti sulla vita di milioni di persone sono un racconto impossibile da accantonare. O, come si è sempre fatto nella fretta della rimozione, da semplificare in due frasi da Bignami. L’idea stessa del futuro duce che s’aggira per le strade di Milano con lo stigma del traditore appeso al collo, difeso nella sua incolumità personale dalla violentissima area anarchica degli interventisti; la storia minuta dei reietti resi irriducibili alla riconversione civile da una guerra che ha insegnato ad uccidere con leggerezza, e da uno Stato che li ha prima agghindati con l’alloro che è dei guerrieri e poi scaricati ai margini delle città, circondati dall’odio di una classe operaia immensa e potentissima, guidata da cialtroni temporeggiatori e timorosi profeti di sventura; o le autoblindo d’annunziane che s’incolonnano verso Fiume in un tripudio di vitalismo legionario e di ingenuità poetico-politica. O il sorgere, terribile, dello squadrismo padano che ha fatto il fascismo assai più di ogni altra regia velleità. Il Fascismo che nasce a Ferrara e a Bologna più che a Roma o nel Sud. Lasciamo stare che l’abbia scritto – tra l’altro benissimo – Scurati. Poteva trascriverla chiunque, la storia di quel biennio che va dal 1919 al 1921. Perché l’epica tragica era già nei fatti. Ma nessuno l’ha fatto. Nessuno s’è azzardato. E l’ha fatto Scurati. L’antipatico e spocchioso Scurati.

Io, di mio, non mi sento di affermare che abbia sbagliato. Anzi. E dinanzi alla sinistra mainstream che s’indigna che un personaggio universalmente reso monodimensionale come Mussolini possa divenire affascinante alla repubblica dei lettori, nel mio piccolo, rispondo che solo chi sorvola e banalizza può ritenere che non lo sia a prescindere. Affascinante. Nelle miserie e nel bisogno fisico di potere, nell’incoerenza strutturale e nel cinismo di bandiera. Affascinante come Italo Balbo, come Arpinati, come Giacomo Matteotti. Perché le storie degli uomini sono affascinanti, quando le si racconta. E il fascino non è un giudizio morale immediato. Piuttosto, è il meccanismo del romanzo ad essere il medesimo, da sempre. Quando Ken Follett ha incentrato il suo La cruna dell’ago sul personaggio di una spia nazista in Inghilterra, i lettori – me compreso – hanno finito per parteggiare per lui, per la spia, per il nazista. Perché è così che agisce l’immedesimazione con un protagonista. Per il Mussolini di Scurati – rassicuriamo gli antifascisti titubanti – non si può parteggiare, nonostante gli squarci della trama permettano arditi sondaggi nell’indole dell’uomo oltre che del dittatore in nuce. Ma è lo stesso per tutti, nel romanzo, per gli amici e per i nemici, per le amanti e per la massa. Piuttosto – se la base della dovuta demolizione dell’opera sta nel presunto automatismo tra comprensione/immedesimazione e fascino da reclutamento – bisognerebbe chiedere ai maestri del pensiero liberal un tempo social-comunisti, come mai – se è così facile lasciarsi affascinare e relativizzare le proprie convinzioni – nessuno di loro ha mai pensato di lasciare da parte le storielle sui propri divorzi e scrivere la grande epopea della Rivoluzione d’ottobre, per dirne una, con Lenin come grande protagonista letterario? C’è un patto non scritto, nella nazione degli intellettuali, per cui il depotenziamento volontario delle fascinazioni da sinistra deve corrispondere ad un equivalente silenzio della controparte? Come a dire: se il popolo è volubile e suggestionabile, noi evitiamo di rendere epici i nostri condottieri e la destra fa altrettanto. Se così fosse, Scurati ha tradito, almeno in parte, il patto. Eppure ancora Follett, nel suo La caduta dei giganti, dipinge la presa del Palazzo d’inverno senza remore, parteggiando per gli insorti, creando – lui, di scuola britannica – empatia da agitprop. Senza nessun problema.

In sostanza, non è colpa di Scurati se quegli anni sono epicamente formidabili, se Benito Mussolini ha preso il potere in luogo dei socialisti che dovevano fare la rivoluzione, e se noi da cent’anni ci battiamo il petto sulla nostra storia. Non è colpa di Scurati se i nostri Omero sono sempre stati dei tristi cantori di sconfitta. Se nella Resistenza di Fenoglio scappano tutti, se i nostri Piccoli maestri sono innocui come gigli violati. Se la nostra storia non risulta campo di epica militante da rinverdire ma spianata di inflessibili critici fuori tempo massimo alla Proletkult. Non è colpa di Scurati se abbiamo rinunciato al fascino.

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