“Morire”. Una vita di Cory Taylor

by Felice Sblendorio

Ci sono alcuni libri che vanno semplicemente letti. Aggiungere qualcosa, anche una minima cosa, sarebbe di troppo: rovinerebbe l’esattezza tagliente delle parole che emergono dal più nero del dolore.

È il caso di “Morire. Una Vita” (Il Saggiatore, pp. 151, € 20,00) della scrittrice Cory Taylor, autrice dei romanzi “Me and Mr. Booker” e “My Beautiful Enemy”, morta a sessantun anni il 5 luglio 2016, due mesi dopo l’uscita di questo libro. “Morire”, pubblicato in Italia con la traduzione di Andrea Libero Carbone, è una testimonianza in forma di romanzo capace di emozionare e far riflettere. Breve nella sua struttura, questo particolarissimo memoir ha la forza immediata di isolare il silenzio e di scandagliare il tema indicibile della morte. 

Complice una sincerità pacificata che disarma sin da subito il lettore, Cory Taylor con questo piccolo libro racconta il suo calvario: si chiama, volgarmente, tumore. In poco più di cento pagine, scritte con una lucidità morale che non cede quasi mai il passo allo sconforto, l’autrice prende le misure con la morte in arrivo, ci ragiona su, tenta di gestirla, di normalizzarla per renderla personale, diversa, responsabile. Scritto in poche settimane, ogni densissima riga di questa testimonianza umana è un tentativo di sfidare la morte affidando la sofferenza alla vita, alla scrittura e al tentativo di dare un nome e un significato, epurato dalla nostalgia per i ricordi passati, all’oscurità del proprio dolore. 

“C’è stato un momento in cui ho visto il mio corpo allo specchio come se fosse la prima volta. Dalla sera alla mattina la mia propria carne era diventata per me qualcosa di estraneo, il sabotatore di ogni mia speranza o sogno. Era incomprensibile, ed era così spaventoso che ho pianto. 

«Non posso morire» ho detto singhiozzando. «Non io. Non adesso.». Ma ora mi sono abituata al morire. È diventato ordinario e irrilevante, una cosa che prima o poi fanno tutti, senza eccezioni. Se una cosa ho paura è di morire male, di rimanere incastrata in una procedura che prolunghi la vita senza motivo. Ho preso tutte le misure di sicurezza necessarie. Ho sottoscritto un testamento biologico e ne ho consegnato una copia al mio specialista in cure palliative. Ho chiarito nelle mie conversazioni, sia con lui sia con la mia famiglia, che non desidero interventi salvavita in extremis, nulla che possa ritardare l’inevitabile. Il mio medico ha promesso che rispetterà il mio volere, ma non posso fare a meno di preoccuparmi. Non sono mai morta prima, quindi a volte il nervosismo del principiante ha la meglio, ma poi passa. No, non c’è nulla di buono nel morire. È triste oltre ogni immaginazione. Ma fa parte della vita, e non c’è via di fuga”. 

Se è vero che le morti improvvise evitano i preliminari ma fanno rimpiangere tutte le cose non dette, come scrive l’autrice, la consapevolezza della fine nel suo caso prepara a una diversa valutazione della vita, facendo diventare il passo andante della morte, paradossalmente, una seconda opportunità per riconsiderare l’esistenza intera. Cerca di viverlo così Cory Taylor questo limbo che la divide dal giorno predestinato. Cerca di conservare la tenerezza per i suoi ricordi, la sensibilità giusta per il presente, uno sguardo ancora vivo e sensibile nonostante la paura. Una paura che Cory cerca di ridimensionare contrapponendo il ricordo della sua vita che diventa così l’unico antidoto all’altezza per sfidare la brutalità indifferente della morte. Con la tenerezza che si perfeziona nelle ultime pagine, l’autrice ci lascia soli con la sua fragile esistenza umana che contiene in sé già tutto, anche una dissolvenza al nero con la parola fine.

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