Re Giorgio (Armani) nel ritratto lieve e dolce di Tony di Corcia

by Felice Sblendorio

Nulla sarà come prima si assicurano idealmente due gruppi di giovani diversissimi e indifferenti l’uno dell’altro. A Milano, nei tumultuosi anni settanta, una forza di passione autentica coinvolgeva i più giovani: da una parte chi voleva cambiare il mondo e dall’altra chi, oltre al mondo, anche l’universo della moda, l’estetica di un Paese stanco, litigioso, scuro.

Parte da queste suggestioni, con il sogno di tre giovani isolati durante le rivolte in tre stanze al numero 37 di Corso Venezia, il libro “Giorgio Armani. Il Re della moda italiana” (Cairo Editore, 173 pagine, 16.00 euro) a firma dello scrittore e giornalista Tony di Corcia. Dopo il successo del suo precedente libro dedicato ad Andrea Pazienza (Cairo, 2018), il giornalista foggiano è ritornato a scrivere di moda per un ritratto a più voci dell’ultimo nobile dello stile italiano. Dopo le biografie di Versace, il genio eclettico, e di Valentino, l’imperatore ultimo dell’haute couture, la penna delicata e sontuosa di di Corcia non poteva ignorare proprio lui: Re Giorgio. Così, con eleganza, stile colto e cura dei particolari che abbracciano la storia del Paese e quella della sua moda, quasi duecento pagine per tratteggiare il personaggio e l’uomo, una generazione in trasformazione e una concezione di stile destrutturata. In attesa delle prime due presentazioni del libro, che si svolgeranno mercoledì alle 22.30 in Piazza dell’Orologio a Polignano a Mare per il Festival de “Il Libro Possibile” e venerdì alle 19.00 a Foggia all’Auditorium Santa Chiara della Fondazione “Apulia Felix”, bonculture ha intervistato Tony di Corcia.

Alla fine, lo possiamo dire, dopo Versace e Valentino mancava solo lui: Re Giorgio. Questo libro è un atto dovuto all’ultimo regnante della moda?

Questo libro esiste grazie a un’intuizione di Marco Garavaglia, direttore della casa editrice Cairo. È stato lui a chiedermi “Lo faresti un libro su Armani?”: era una proposta troppo eccitante per pensarci più di una frazione di secondo. Ma il nome di Armani mi veniva da tempo suggerito, richiesto quasi, da molti lettori. Sì, è un atto dovuto a un importantissimo rappresentante del made in Italy, a un personaggio che ha saputo dare una forma al periodo storico immediatamente successivo al Sessantotto: le donne e gli uomini avevano atteggiamenti, attitudini ed esigenze totalmente nuovi e Armani ha saputo intuire tutto questo elaborando la divisa giusta per muoversi in un momento cruciale della storia del nostro Paese, in cui abbiamo assistito a rivoluzioni, conquiste di nuovi diritti, a un’emancipazione femminile più intensa rispetto ai decenni precedenti, a una ridefinizione dei ruoli, dei linguaggi, delle relazioni. Ho ripercorso la sua carriera, dall’invenzione di quella giacca che ormai è il suo più riconoscibile trademark fino alla costruzione di un impero che si estende in ogni continente, ma ho cercato anche di raccontare l’uomo, il privato, la personalità: di Armani, uomo di leggendaria riservatezza, si sa pochissimo. Io ho cercato di violare questa cortina difensiva per dimostrare quanto la sua creatività affondi nel suo vissuto, nella sua infanzia, nella sua visione della vita.

Se c’è una traccia nel destino, la biografia su Versace aveva preannunciato idealmente questo lavoro visto che Armani ne aveva firmato la prefazione. Gli antagonisti per eccellenza dello stile si ritrovano, ancora una volta, fra le tue pagine. Una responsabilità non da poco.  

La difficoltà più grande, per me, è stata quella di mantenermi equidistante quando ho dovuto scrivere di questa leggendaria contrapposizione che vedeva anche nella moda uno di quei dualismi a cui noi italiani sembriamo particolarmente affezionati: Milan/Inter, Coppi/Bartali, Callas/Tebaldi. Avendo amato molto Gianni Versace, e avendo debuttato con ben due libri su di lui, volevo assicurare parità di trattamento al suo antagonista: è stato stimolante raccontare la storia di quegli anni (non solo quella del costume) da un’altra angolazione.

L’angolazione differente osserva i luoghi e le rivoluzioni in una Milano animata da chi voleva cambiare il mondo e chi la moda. Come si incontrarono idealmente questi universi opposti?

Sono talmente opposti e inconciliabili che è difficile farli incontrare anche idealmente! Eppure i loro percorsi sono stati paralleli, talvolta quasi coincidenti: soprattutto nella consapevolezza che dopo nulla sarebbe stato come prima, tanto nelle battaglie per i diritti e nella protesta quanto nella concezione dell’abbigliamento. La coesistenza di queste due realtà, due dei tanti volti che una città straordinaria come Milano ha saputo assumere nel corso del secolo scorso, mi ha profondamente affascinato. E, siccome io uso sempre la moda e la vita degli stilisti come un pretesto per raccontare il tempo in cui hanno vissuto la loro esistenza, ho avuto nuovamente la possibilità di raccontare quegli anni così agitati e intensi, ingenui e ardimentosi. Come il duca Astolfo dell’Orlando Furioso sono andato sulla Luna e, anziché recuperare il senno, ho raccolto un elemento che sembra materiale da archeologi: la passione. Erano anni di profonda passione, di grande partecipazione, di impegno vero. Non ci si indignava per pochi secondi su una tastiera: si scendeva in piazza, ci si confrontava, si osava. 

Una passione che Armani ha sviluppato nella sua moda, direi la più rivoluzionaria con l’introduzione di forme destrutturate, contaminazione di generi, elementi femminili donati all’uomo e viceversa. È stato Armani a tradurre in moda le abitudini di un fine secolo che andava incontro alla modernità?

Lui haapplicato al vestire tutte le profonde trasformazioni che i ruoli e le relazioni avevano subito sin dagli inizi del secolo grazie alla psicanalisi e che la rivoluzione sessuale aveva consolidato. Gli uomini e le donne che si riconoscono negli abiti di Armani e che da questi si sentono rappresentati hanno compiuto un viaggio in una parte essenziale della loro interiorità, sono figure complete e definite, che non temono di gestire tratti tipici del sesso opposto e hanno preso contatto con la loro controparte sessuale per usare, appunto, il linguaggio psicanalitico: la dimensione femminile nel maschio e la dimensione maschile nella donna, donne che rivendicano una diversa proiezione sul mondo esterno per un riconoscimento del proprio valore e uomini che non si negano capacità di sogno e slanci immaginativi.

Dopo quest’eleganza senza sfarzi, identitaria e autorevole ma indulgente cosa non è stato più come prima?

L’atteggiamento. Prima di quel momento, vestirsi significava indulgere nella sciatteria del folk tanto cara alla moda hippie o imbalsamarsi in giacche strettissime, rigide, che sembravano di cartone. Grazie all’avvento di quella moda “svuotata”, che si fondeva al corpo con la stessa poesia con cui una foglia trasportata dal vento, si è assistito alla dimostrazione pratica di quanto l’eleganza si nutra di naturalezza. Armani ha proseguito l’opera di alleggerimento del guardaroba di Coco Chanel, che aveva compreso quanto il dinamismo e la scioltezza potessero assicurare un’immagine autentica, luminosa, gioiosa alle donne, tutto il contrario di come apparivano costrette nei bustini, impacciate dagli strascichi e sovrastate da complicate acconciature prima del suo rivoluzionario avvento. Armani ha esteso quelle innovazioni anche al vestire maschile, e da allora l’abito ha assecondato la necessità di movimento e velocità, tipica del Novecento sin dai suoi albori.

L’aquila Armani resterà una delle icone più riconoscibili del nostro Paese. Tu ricordi Battiato e le aquile che non volano mai a stormi, ma libere e sole nel cielo. Verrebbe da pensare che l’unicità si conquisti con l’eccesso, ma Armani testimonia che non è così. Quando si lavora con l’essenza, con un segno meno come guida, come si diventa unico?

Proprio grazie all’essenza. Un messaggio pulito, sintetico, preciso viene ricordato con maggiore chiarezza rispetto a un altro confuso, sovraccarico, complicato. E questa “limitazione” permette a quel tipo di moda di lasciare uno spazio vuoto da riempire con la propria personalità, come una cornice rassicurante e non invadente in cui esprimersi liberamente. Ci sono abiti che sono come dei vampiri, succhiano tutta la personalità di chi li indossa e lasciano un ricordo sbagliato della persona. L’eccesso aiuta a farsi notare velocemente, ma stanca con la stessa rapidità. Lasciarsi scoprire lentamente, invece, permette di farsi conoscere completamente, profondamente, e di farsi apprezzare e ricordare.

Penso che gli manchi il futuro” dice Aldo Fallai, mentre Serena Tibaldi confessa che “da Armani sai già cosa vai a vedere: vai a vedere Armani”. Sono modi eleganti per ammettere che Armani, dopo le grandi innovazioni, ha replicato se stesso?  

Ci sono fenomeni che cambiano a seconda del modo in cui li chiamiamo, o a seconda dei punti da cui vengono osservati. Quella che i giornalisti di moda potrebbero definire “prevedibilità” o “ripetitività” è per i consumatori un’espressione di coerenza e di affidabilità. Se devo risponderti da persona che si occupa di moda ti confermo che da Armani non ci si aspettano sorprese eclatanti. Se ti rispondo da cliente che impazzisce per Emporio Armani, ti confido che è estremamente rassicurante sapere di trovare certe linee, certi tessuti, un certo concetto rispettato nel corso degli anni. Un rifugio sicuro. Come le favole che ci raccontavano prima di addormentarci: conoscevamo già il finale, e questo ci permetteva di goderle pienamente. Quanto alla frase di Aldo Fallai, l’ho trovata eccezionale nella sua verità e quasi spietatezza: è una frase che può essere pronunciata solo da qualcuno, come Fallai, che ti conosce da tutta la vita e può percepire che cosa si agita nel tuo animo. Credo che sia uno dei passaggi più potenti del libro.

Questo libro è prezioso soprattutto per il ritratto dell’uomo che si nasconde dietro la divisa impeccabile dello stilista chic: secondo te ha mai capito che quel Giorgio da Piacenza, con il tempo, è diventato l’Armani del mondo?

Sembrerebbe proprio di no. Non è che sia totalmente inconsapevole di che cosa è diventato nel corso di questi decenni, ma forse non conosce le vere dimensioni che il suo personaggio ha assunto a livello internazionale. La sua vita è una continua corsa verso un ideale di perfezione, una totale dedizione al suo progetto: non gli resta molto tempo per la vanità personale, per bearsi del suo successo, per compiacersi dei traguardi che ha superato.

Le stranezze sull’uomo Armani trapelano in molti racconti: un re come lui è un maniaco della perfezione oppure è un uomo tormentato se ogni sera controlla che la lucina di tutti i computer dell’azienda sia spenta?

Il giro delle stanze di tutta l’azienda prima di andar via, stando ai racconti e alle confidenze che ho raccolto, è stato una sua abitudine fino a qualche anno fa. Adesso, a quanto pare, questo aspetto si è ammorbidito. Ma resta sempre altissimo il controllo sul suo lavoro, su tutto ciò che porta il suo nome: Armani è davvero il primo dipendente della sua azienda. Del resto, la prima volta in cui l’ho conosciuto era una domenica di fine luglio, a Milano non camminava quasi nessuno: lui sarebbe potuto essere ovunque, a rilassarsi in una delle sue bellissime case e, invece, era impegnato a rifare la vetrina del suo store di Via Manzoni. Vederlo su quella scala, a sistemare meticolosamente abiti e accessori, è stata una preziosa lezione: è curando ogni dettaglio e investendo ogni energia nel proprio progetto che si diventa Giorgio Armani.

L’insicurezza e la solitudine, in profondità, la ritroviamo solida nel vuoto che hanno lasciato due figure importanti nella sua vita come Sergio Galeotti e sua madre. Qui non c’è maschera che tenga, vero?

C’è una frase di un film del 2008, “Easy Virtue”, che mi è rimasta impressa: “le persone sono così universalmente simili quando abbassano la guardia”. Di fronte ai lutti, alle perdite, sfumano le differenze tra i comuni mortali e le celebrità. Per tutti valgono le stesse tristi regole. Quando perdi un affetto o un amore, il passare del tempo è un fenomeno relativo: è sempre ieri. E successi, ricchezze, ambizioni non bastano a compensare il vuoto lasciato da persone che hanno saputo riconoscere in noi qualità e capacità che noi per primi ignoravamo. Per Giorgio Armani, un uomo che possiede fama e ricchezza, i due beni più preziosi sono le fotografie di sua madre e del partner che gli è stato accanto fino alla morte avvenuta negli anni Ottanta. È il suo modo per sentire sempre viva la loro presenza, per tenere accesi su di se quei due sguardi.

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