Rivoluzione, sennò chiudete l’Internet. La proposta di Christian Rocca

by Felice Sblendorio

La proposta sarà pure modesta, ma in questi tempi disordinati anche l’illuminata razionalità è un punto da cui ripartire. Christian Rocca, giornalista e scrittore, attualmente a “La Stampa” ma con un solido passato al “Foglio” di Giuliano Ferrara e alla direzione di “IL” (uno dei magazine più interessanti e internazionali che il panorama editoriale italiano abbia avuto), è tornato in libreria con un saggio fondamentale per scandagliare analiticamente gli strascichi negativi dell’era digitale.

“Chiudete Internet. Una modesta proposta” (Marsilio, pp. 144, euro 12,00) è un manifesto e un bilancio critico puntualissimo, un j’accuse e una proposta radicale per scongiurare la fine del mondo oramai prossima, secondo l’autore, con l’attuale modello di Internet. bonculture ha intervistato Christian Rocca.

Lei dedica il suo libro “A Google e a Twitter, insomma, a Internet”, contestualizzando così il titolo come una giusta provocazione. L’internet di oggi, però, lo chiuderebbe volentieri: non è così?

Il titolo gioca espressamente con la modesta proposta di Jonathan Swift, scusandosi con il grande autore inglese per avergli sottratto l’idea di satireggiare non sulla fine della povertà come fece lui – tanto su quello hanno già risolto Di Maio –, ma sulla fine del dibattito pubblico a causa del dominio dei social network. La dedica scherzosa, ma anche veritiera, è in quello spirito. Vorrei chiudere l’Internet come lo conosciamo adesso, il suo modello di business attuale, non la straordinaria tecnologia che c’è dietro.

Da convinto progressista e da entusiasta osservatore della rivoluzione profonda che l’avvento del digitale ha innescato, quali sono i principali punti traditi?

Abbiamo creduto che la rivoluzione digitale avrebbe portato tutto il sapere del mondo alla portata di tutti, la fine dell’ignoranza e il progresso assicurato. Purtroppo non è andata sempre così. La cosa più eclatante è che il dibattito pubblico è finito: l’opinione pubblica non esiste più.

Ma il mondo dov’era? Si è per troppo tempo minimizzata la portata epocale di questa rivoluzione?

Ogni volta che una nuova tecnologia ha cambiato il mondo, solo con il tempo si è trovata una soluzione per evitare scompensi, posizioni dominanti e limitazioni della concorrenza. È successo con l’energia, con le ferrovie, con le telecomunicazione, finanche con la bomba atomica. Succederà anche con i social network e le piattaforme digitali che hanno assunto dimensioni, peso e importanza inauditi. Ora comincia a essere tutto chiaro: l’Europa l’ha capito, molti nuovi politici americani cominciano a fare proposte concrete e gli stessi fondatori della Silicon Valley riconoscono che il problema esiste. 

Il più importante capo d’accusa è l’attacco, veicolato e gestito da Internet, alle nostre democrazie occidentali. Quanto è rischioso convivere con queste invasioni dopo il crollo dei corpi intermedi, dei filtri fra popolo e potere?

Il grado di pericolosità è da valutare con le vittorie elettorali degli agenti del caos, a ogni latitudine, di destra e di sinistra: ovunque vince chi urla di più, chi odia di più, chi è più incapace di affrontare la complessità dell’esistente. Vince chi controlla il videogame dell’era digitale, chi tiene alto l’engagement sul nulla e trova un nemico interno o esterno cui dare la colpa. Nel libro cito “Le origini del totalitarismo” di Hanna Arendt, le similitudini con gli anni Venti e Trenta sono evidenti.


La sua (modesta) proposta è quella di regolamentare Internet, di scrivere un Codice per proteggere la nostra società. Più che l’anima umanistica come sostiene Baricco nel suo “The Game”, lei auspica una ritrovata anima giuridica, legislativa, tecnica oserei dire.

Va cambiato il modello di business delle piattaforme digitali. Questo è il punto. Le soluzioni sono molteplici ma devono andare nella direzione che i miei dati personali sono miei, e non di chi mi consente di condividere fotografie su Instagram, pensierini su Twitter o amicizie su Facebook Se vogliono usare i miei dati me li devono retribuire. E se io non voglio non possono farlo. 

Senza ipocrisie, nel suo libro spiega che la gratuità dei servizi è bilanciata dalla capacità di determinare il cambiamento dei comportamenti dell’utente. Detta così, l’espressione “dittatura dell’algoritmo” non sembra una boutade semplicistica. 

Oggi il modello di business è proprio questo: in cambio della gratuità dei servizi offerti, i grandi colossi della Rete succhiano agli utenti le informazioni personali, sia quelle consegnate liberamente sia quelle dedotte dai loro comportamenti; e per utilizzare in modo profittevole queste informazioni personali, Google, Facebook e tutti gli altri intrappolano gli utenti dentro una «Skinner box» virtuale, una di quelle gabbie da esperimenti per topi grazie alle quali gli scienziati sono in grado di anticipare le scelte delle cavie e addirittura di determinarle in base agli stimoli trasmessi. Noi siamo le cavie, i social sono la scatola, gli algoritmi sono in grado di anticipare le nostre mosse, le fake news sono gli stimoli, le piattaforme sono quelle che vendono la possibilità di farci cambiare comportamento.

Internet ha fortificato il paradosso della conoscenza a portata di tutti che non interessa a nessuno. Il “rincretinimento generale” parte anche da qui? 

Con l’informazione circola anche la disinformazione e, inoltre, la possibilità di accedere in modo istantaneo a questa massa non filtrata di dati e di nozioni che, oltre alle bufale, cancella quasi del tutto la capacità di selezionare, di valutare, di discernere: cioè di conoscere. Il paradosso è che prevale l’ignoranza mista ad arroganza. Più precisamente, prevale il sapere di non sapere. 

Lei cita Lanier e il suo “maoismo digitale”. Una profezia avverata: far parlare tutti per non far pesare nessuno, standardizzare il pensiero e la capacità critica in una folla urlante. Un successo, non crede? 

Lanier dice queste cose da dieci anni. Quando denunciava il sistema pensavamo tutti fosse esagerato. Invece era un realista, sapeva di che cosa stava parlando, e aveva ragione lui.

Tom Nichols nel suo “The death of expertise” ha denunciato: “È in atto una nuova dichiarazione di indipendenza: non ritengono più ovvie queste verità”. La percezione falsificata della realtà è uno dei punti più critici dell’attuale mondo occidentale. 

Siamo passati in poco tempo dalla fine della competenza alla post truth, cioè a una società che non tiene conto dei dati di fatto. Poi sono arrivate le fake news, che ci sono sempre state ma mai industrializzate, targettizzate e diffuse a questa velocità come adesso. Poi le fandonie sono diventate “fatti alternativi” e in Italia abbiamo un sottosegretario a Palazzo Chigi che da un lato chiude Radio Radicale e dall’altro rivendica il diritto costituzionale dei cittadini di diffondere bugie. Infine, un consigliere di Trump ha detto che “la verità non è la verità”. Bingo. Siamo oltre la percezione falsificata della realtà: ha vinto il falso. Il falso è più realistico del vero, si condivide meglio, è più virale, e le conseguenze sono reali. 

Le verità alternative sono condivise molto spesso, in nome dell’imparzialità, anche dal megafono della stampa. È il segno di un fallimento tangibile dell’élite giornalista questo mondo sconnesso? 

In Italia certamente, in America i giornali sono stati complici in nome del politicamente corretto, e tutto sommato perché erano certi che Trump avrebbe perso. Una volta che ha vinto, la stampa americana è diventata l’ultimo bastione di civiltà esistente. In Italia siamo più trasformisti. Il populismo contemporaneo l’abbiamo inventato noi, sui nostri giornali: dal 1993 con Tangentopoli fino alla campagna contro la Casta una decina di anni fa e ai talk show di questi anni. La rivolta del popolo contro le élite è un’invenzione delle élite giornalistiche, economiche e politiche che, come l’apprendista stregone di Disney, poi non sono riusciti a domare il fuoco. 

L’Europa, che il 26 maggio andrà al voto, ha fatto molto su questi temi: sono passi nella giusta direzione?

Sì, l’Europa è l’unica istituzione politica che ha affrontato questi temi, con due direttive: una sulla protezione dei dati personali e una sulla protezione del lavoro intellettuale, entrambi sfruttati dalle piattaforme digitali. È anche l’unica istituzione politica che si è posta il problema di far pagare le tasse alle grandi multinazionali digitali, perché c’è anche questo da dire della Silicon Valley: non paga le tasse come le altre aziende. Certo, l’Europa ha agito in questo modo anche perché le piattaforme digitali non sono europee e per difendere le industrie europee devastate dalla Silicon Valley e, ripeto, per far pagare le tasse ai monopolisti del web. Ha fatto il suo dovere di difendere gli interessi dei cittadini europei. Viva l’Europa, dunque.

Se non riuscirà questa regolamentazione che lei ipotizza, l’alternativa sarà quella di chiudere definitivamente Internet. Saremo in grado di oltrepassare la tempesta? 

Siamo ancora molto lontani, ma come dicevo prima ora è tutto più chiaro. Si potrà non credere a Mark Zuckerberg, ma ormai anche lui dice che le cose cambieranno. Questa è la grande battaglia della nostra epoca, la nuova battaglia per i diritti civili e per la democrazia. La strada è ancora lunga ma perlomeno, adesso, la vediamo. 

*Ph credit: Scuola Holden

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