Se fosse tuo figlio

by Paola Manno

Di fronte all’immagine del mare attorno a Samos,  limpido come il vetro, penso che il mondo sarebbe di una bellezza disarmante, accidenti, se non fosse così ingiusto. Il Mediterraneo è davvero un mare di vetro, duro e fragile insieme: ci vuole un attimo a scivolare, un attimo a morire. In queste acque c’è una linea che separa l’azzurro dal nero, il viaggio dalla fuga, la bellezza dalla morte. È una linea che quasi nessuno vuole vedere perché quello che succede oltre quel confine sottile deve rimanere una storia “altra da noi”, diversa, lontana, anche se lontana non è, anzi, è proprio attaccata alla nostra schiena e ci sfiora, giorno e notte.

Eppure la domanda da porsi è chiara, diretta: se dall’altra parte, invece, ci fosse nostro figlio? Se lo chiede Nicolò Govoni nel suo libro appena uscito per Rizzoli e al settimo posto nella classifica dei 10 libri più venduti secondo Repubblica: “Se fosse tuo figlio riempiresti il mare di navi di qualsiasi bandiera/ (…) ti getteresti in mare, te la prenderesti con il pescatore che non presta la barca/ (…) se fosse tuo figlio li chiameresti/ vigliacchi disumani, gli sputeresti addosso/dovrebbero fermarti, tenerti, bloccarti/ perché una rabbia incontrollata potrebbe portarti/a farli annegare tutti nello stesso mare” sono i versi di Sergio Guttilla che aprono il libro, diventandone quasi un manifesto.

Leggo “Se fosse tuo figlio” di notte, accanto ai miei bambini addormentati, nei loro pigiamini puliti: il pensiero dei loro respiri in un posto che è un inferno, in un posto come Samos, per esempio, è talmente atroce che non posso accettarlo, non posso nemmeno trattenerlo per pochi istanti e mi costringo a pensare ad altro, immediatamente.  E’ così facile, mi dico, amare i propri figli! La vera rivoluzione sarebbe quella di sentirsi madre di tutti i bambini del mondo.  Ci sono frasi di questo libro che sono come schegge conficcate nella carne:  “All’inizio piangono, ma poi si abituano” pronuncia la responsabile dell’hotspot separando due fratelli rimasti orfani. Abitudine è la parola che infatti tutti usiamo per sopravvivere alla coscienza del male, alle brutture del mondo. Ma l’abitudine, io credo, non è che il primo passo del percorso che continua con “noi e loro” e finisce con “affondate quella nave”.

Quello di Govoni è un libro che racconta il limbo dei centri di prima accoglienza, in cui a gente che fugge da guerre vengono negati anche i basilari diritti umani. Racconta delle tendopoli circondate da spazzatura, delle violenze perpetrate contro i minori non accompagnati, dei dossier di denuncia lasciati chiusi nei cassetti. Eppure, nella crudezza del resoconto, quello che più colpisce è l’umanità del ragazzo che scrive, è la sua assoluta convinzione che le cose si possano davvero cambiare, lavorando insieme, è la tenace fede, soprattutto, nella scrittura come mezzo di denuncia.

Nicolò ha 26 anni ed è un semplice volontario che dopo aver visto, trova il coraggio di raccontare. E’ un libro scomodo, questo qui, perché Govoni fa nomi e cognomi, cita ONG e nomi di responsabili di grosse istituzioni, perché denuncia la polizia greca ma pure, soprattutto, molto di ciò che ruota attorno al mondo del volontariato e delle organizzazioni in difesa dei diritti umani.   Nicolò ha costruito una scuola (Mazì) per i bambini rifugiati, che garantisce loro non solo istruzione, ma anche un pasto caldo e l’attenzione che ogni minore merita per sentirsi amato. E’ una scuola di eccellenze, perché i bambini che scappano dalla guerra hanno il diritto di avere il meglio, come gli altri. Nicolò ha parole adulte, profonde: “-Non puoi farci nulla – mi avevano detto. Non ci ho creduto. Questa scuola è il più grande atto di ottimismo di cui io sia capace”, “così ho capito che avere un figlio deve essere al contempo splendido e terrificante, ogni secondo della tua vita” e ancora “quando il sistema attorno a te si fonda sulla paura e dell’isolamento, la felicità è un atto di insurrezione”.

Di fronte a testimonianze come queste, davanti a uomini che lavorano per gli altri, ogni giorno, per rendere il mondo un posto migliore, lezioni dopo lezione, gesto dopo gesto, mi torna sempre in mente l’ultima scena di Schindler’s list, in cui tutta la disperazione  del protagonista, che ha comunque salvato la vita a decine di ebrei, sgorga fuori come un fiume in piena: “Avrei potuto fare di più… se avessi avuto più soldi, se avessi venduto la macchina, la mia spilla…mi avrebbero dato 2 ebrei, 10 ebrei, avrei salvato altre persone…” che racconta bene il senso di inadeguatezza, di fragilità, di insoddisfazione di chi fa il bene e sa che è una goccia nel mare. “Chi salva una vita, salva il mondo intero” pronuncia uno degli uomini che ha salvato. “Un bambino alla volta” scrive Govoni.

Ecco, è nel fare che sta l’enorme differenza tra quelli che hanno a cuore la questione del rapporto con l’altro. Indignarsi per chi vede nel migrante il pericolo, lottare contro le politiche di chiusura, denunciare le ingiustizie, sono tutte cose buone e giuste, io credo, ma pure buoni e giusti non sono quelli che soffrono di fronte alla foto di un padre e una bambina morti abbracciati oltrepassando il confine. Rabbonire il dolore che i morti fanno alle nostre coscienze è un meccanismo di difesa, ma oggi più che mai è dei fatti che abbiamo bisogno. Abbiamo, tutti quanti. Quelli che hanno camminato tanto e noi che stiamo fermi.    Grazie Nicolò per il tuo fare.          

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