“Ti mangio il cuore”, il racconto della mafia di Capitanata

by Elisabetta de Palma

Martedì sera, all’Auditorium “Santa Chiara” di Foggia, è stato presentato, in anteprima nazionale, “Ti mangio il cuore”, il nuovo libro pubblicato da Feltrinelli e scritto da Carlo Bonini e Giuliano Foschini, entrambi cronisti di “Repubblica” e autori di reportage che hanno acceso fari su vicende tanto buie quanto difficili da indagare come “Suburra”, “Nove giorni al Cairo” e  il caso Cucchi.   

Per questo lavoro si sono messi insieme per raccontare una scoperta imprevedibile, per loro: la mafia di Capitanata. Come per tutta l’Italia, anche per i due giornalisti la spinta decisiva è venuta dalla strage del 9 agosto 2017, a San Marco in Lamis, quando Luigi ed Aurelio Luciani vennero uccisi presumibilmente per essere stati testimoni di un crimine appena compiuto. Da allora, da quasi due anni, il Paese ha scoperto che in questo territorio impera una criminalità potente, infiltrata, asfissiante. E anche giornalisti del calibro di Foschini e Bonini hanno dovuto, loro malgrado, riconoscere di non averne colto la portata.

E’ stato il mantra della serata, questo: e chi se lo immaginava, vivevo a cento chilometri da qui ma non ne sapevo niente, come è stato possibile, di chi è la responsabilità?

Certo, perché quando si comincia a cucire l’ordito dei morti, dei processi, delle inchieste, quando si ascolta chi da sempre – o da poco, è uguale – lo racconta, questo territorio, per quello che è, per come lo conosce e lo interpreta, la trama emerge fittissima. Si estende a zone grigie di collusioni politiche, a spazi di confine fra economia legale ed illegale, a mafiosità degli stili di vita, a silenzi come prassi consolidata della vita quotidiana. Si comincia a vedere chiaramente, molto chiaramente.

Parlano così tutti gli ospiti della serata, moderata da Giacinto Pinto: lo dice il procuratore Volpe, chirurgico nell’analisi della sottovalutazione di cui è stato fatto oggetto il fenomeno, per decenni.  Per Volpe parte forte l’applauso di Daniela Marcone e di tutta la sala, quando riconosce le responsabilità della magistratura nei buchi neri del passato; ma anche quando sottolinea che davvero le promesse degli ultimi due anni sono state mantenute, dall’incremento degli organici alla qualità delle investigazioni.

Gli fa eco Giuseppe Gatti, forse il più esposto della Procura Antimafia di Bari, che da giovane magistrato ha conosciuto la ferocia delle faide garganiche, 14 morti nei primi sei mesi di servizio. Pastori, dicevano allora, menti raffinate, aggiunge lui ora, capaci di coniugare tradizione e modernità, di adattarsi alle situazioni fiutando il vento, di ottenere il consenso convinto delle vittime.

Lo dicono Anna e Arcangela, mogli dei fratelli Luciani. Parlano con rigore, nessuna enfasi, idee chiare: la mafia uccide, e può entrare nella vita di chiunque in qualunque momento, come è successo a loro. Dal tono che usano, dalle parole che scelgono, traspare stima profonda verso i magistrati, “uomini buoni che non si vedono”, e riconoscenza per le forze dell’ordine, di cui sottolineano anche la profonda umanità. Il loro impegno si rafforza ogni giorno con un solo obiettivo, dare pace ai mariti ottenendo giustizia. Fra poco avrà inizio il processo, una tappa non facile per loro: ancora il racconto della strage, ancora le vicende che vi hanno fatto seguito, ma si dicono pronte, vogliono poter raccontare ai loro figli che la verità si può conoscere e affermare.

Mi immagino, allora, giovani uomini e giovani donne che sapranno chi ha armato le mani che hanno ucciso i loro padri e che quelle mani potranno evitare di stringerle, se vorranno. Un “privilegio” non concesso, ancora oggi, ai tanti familiari delle vittime di mafia che verità e giustizia non hanno conosciuto.

È però anche grazie a loro che oggi si scrivono libri su questa terra, che se ne parla a volte non conoscendola neanche troppo bene ma ottenendo comunque grande attenzione e credito.

Loro, che tempo addietro hanno dovuto convincere le loro comunità di non essere visionari, scontrandosi con le istituzioni che rifiutavano anche solo il suono della parola mafia; che hanno dovuto affrontare la paura di essere soli, di restare isolati dalla delegittimazione che vedeva in questa lotta un attacco al buon nome dei territori coinvolti, della classe politica, imprenditoriale e civile.

“Non siamo sole”, ripetono invece le signore Luciani: sono le parole più rassicuranti che ripercorrono tutto l’incontro. Raccontano di un tessuto sociale che cambia sotto i loro occhi e che comincia a denunciare, a collaborare, a credere che le cose possano cambiare iniziando a decidere da che parte stare; ad esempio, dalla parte di tutta quella gente che comincia in primo luogo a chiamare le cose con il loro nome: finalmente.

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