Uccisa dal web: il dramma di Tiziana Cantone

by Felice Sblendorio

Sarà ritornato in mente a più di una persona il volto di Tiziana Cantone quando l’infamia che ha coinvolto nei giorni scorsi l’On. Giulia Sarti è diventata pubblica con la diffusione di materiale intimo e privato. Subito il pensiero a Tiziana, ai suoi occhi, al suo volto oramai celebre in quelle poche foto felice e spensierata prima del lungo calvario che l’ha portata al suicidio nel 2016 per lo stesso motivo che ha scosso in questi giorni la politica italiana. Stesse insinuazioni, ammiccamenti, modi che legano vittime e carnefici a doppie correlazioni di colpa, molto spesso distorte.

Metodi simili raccontati in un libro appena pubblicato, “Uccisa dal web. Tiziana Cantone – La vera storia di un femminicidio social” (Jouvence, pp. 116, € 12,00), scritto dal giornalista Luca Ribustini e dall’avvocato Romina Farace. Il libro, una testimonianza che cerca di andare oltre le verità processuali (i due processi archiviati per diffamazione e per istigazione al suicidio e quello appena cominciato a carico di Sergio Di Paolo, l’uomo con il quale Tiziana aveva una relazione sentimentale durante la diffusione del materiale pornografico e oggi accusato di calunnia, falso e accesso abusivo di dati informatici), è un viaggio emozionante e a tratti disperato nella memoria della mamma di Tiziana, Maria Teresa Giglio. A quasi tre anni dalla scomparsa di sua figlia, complice il ritrovamento di una scheda memoria contenente 27mila messaggi Whatsapp, quasi ignorati dai carabinieri e non ancora presi in esame dalla magistratura, che ribaltano la tesi auto-assolutoria resa agli organi inquirenti dall’ex fidanzato, la mamma di Tiziana ritorna sui passi di un dramma malato, condannato a restare pietra d’inciampo per l’Italia intera. 

La storia è tristemente nota a tutti: la fiducia tradita di una persona amata, un “gioco” accordato per non perdere “Lui”, alcune condivisioni in una cerchia ristretta e privata di amici e poi le vie del web inondate, contro la propria volontà, di sei video pornografici che ritraevano Tiziana durante alcuni rapporti sessuali. Così, nei fili della connessione di una rete disumana, dove ogni azione è negazione delle proprie responsabilità, una vita subito distrutta prima che un foulard al collo diciassette mesi dopo scrivesse la parola fine a quel dolore: parodie, commenti, fan page, video remixati, merchandising, servizi giornalistici su testate on-line di approfondimento sul “fenomeno Cantone” (ci si chiedeva sul ilfattoquotidiano.it se fosse un’operazione di marketing per il lancio di una nuova pornostar), video box di alcuni giovani divertiti nell’imitare una frase di Tiziana contenuta in uno dei suoi video intimi diffusi sul web,  “Stai facendo un video? Bravoh”(ancora on-line su Youtube, Road Tv Italia, 109.417 visualizzazioni). In pochi giorni, un’epidemia incontrollabile di materiale spalmato in tutti i possibili spazi malati della rete: non c’è nulla da fare. La giustizia è una tartaruga in confronto alla malvagità capillare e fulminea del web. Non basterà la forza e l’umiliazione di Tiziana nel riprendersi la sua vita, denunciare, cambiare identità e cognome, chiudersi in casa per non essere riconosciuta e insultata: tempo scaduto. 

La rete non dimentica, neanche se lo vuoi. La rete non perdona nulla, neanche la fragilità di una donna abbandonata da piccola dal padre, alla ricerca costante di una figura maschile protettiva, in balia delle onde di un amore tenebroso e insicuro. Non perdona errori, debolezze, ingenuità, piaceri intimi legittimi ma privati. Non perdona neanche, come scrive la mamma in un lungo e articolato racconto che ribalta la narrazione di Tiziana come “una poco di buono”, “la folle velocità dell’unica e drammatica strada che le sembrava possibile per non essere abbandonata ancora una volta da un uomo”: Tiziana schiava, travestita da libertina, Tiziana bimba in un mondo maschile e adulto. 

Tiziana, ancora lei: uccisa nel reale e dal virtuale. Uccisa da quell’idea tutta vischiosa e terribile che contempla la sessualità come argomento di ricatto fra adulti, che crede ancora al tema del sesso come notizia, come indice di moralità di una persona. Nel Paese Italia del terzo millennio, eternamente condannato ad avere un rapporto irrisolto fra la propria cultura educativa e la sessualità, una giovane donna è stata costretta ad uccidersi per la vergogna, perché la complessità della sua persona era stata ridotta ad una sola dimensione: quella sessuale. E chi può dire di essere totalmente se stesso nel sesso? Nessuno, perché il sesso è terreno intimo e riservato, atto amplificato e distorto dell’immagine pubblica di una persona. Per Tiziana, però, non è andata così: le sirene del moralismo perenne prima e dopo la sua morte hanno ricordato che alla fine se una donna fa certe cose, se l’è cercata. La morte cercata nel Paese dove la libertà sessuale è garantita dalla Costituzione ma punita dalla morale, dove la bigotteria ha la meglio sul diritto e dove se vengono sottratti e diffusi sul web contro la propria volontà scatti intimi la colpa è della vittima perché “certe fotografie non si scattano: punto”. Cambierà qualcosa, forse, quando una donna non dovrà più sentire il peso di un ricatto sessuale e potrà semplicemente dire, come ha evidenziato su Il Foglio la scrittrice Nadia Terranova, “sì, l’ho fatto, e allora?”. E allora? 

Post Scriptum: Non è servita neanche la morte di Tiziana per eliminare quei video della vergogna: sono ancora lì, su Pornhhub e su decine di altri siti. La disumana legge dei click non si ferma neanche di fronte a un corpo senza vita.

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