Dalla Russia con furore, il collettivo punk Pussy Riot arriva in Italia

by Germana Zappatore

La musica c’entra poco. Chi ha comprato il biglietto per vederle a Milano (lo scorso 13 febbraio) o a Bologna (il 15) lo ha fatto più che altro per curiosità. Sì perché da un concerto delle Pussy Riot, che fuori dalla Russia sono famose più per le provocatorie proteste contro Putin che per le canzoni, ci si aspetta uno show ricco di colpi di scena, fuori dagli schemi e che poco abbia a che vedere con un music live tout court.

E non può essere altrimenti dal momento che il tour si basa sul libro ‘Riot Days’ scritto nel 2017 da una delle componenti del collettivo punk rock femminista russo Marija Alëchina. È una vera e propria autobiografia in cui la giovane racconta gli anni trascorsi nelle colonie penali russe a seguito del famoso arresto nel 2012.

Allora Marija aveva 24 anni e studiava giornalismo. Il 21 febbraio di quell’anno, insieme alle amiche Nadya Tolokonnikova ed Ekaterina Samucevič e con il volto coperto da un balaclava colorato, protestò contro la rielezione di Putin cantando dentro la cattedrale di Cristo Salvatore di Mosca. Il brano, oltre a parlare del patriarca russo Cirillo I come di un uomo che crede più in Putin che in Dio, era una sorta di ‘preghiera punk’ in cui si invocava la Vergine Maria affinché mandasse via il rieletto Presidente.

Le tre giovani furono arrestate e processate. La canzone fu definita “blasfema” perché “esprimeva chiaramente l’odio basato su affiliazione religiosa”, mentre Marija, Nadya ed Ekaterina furono accusate di essere state mosse da “odio religioso” e di aver commesso una “grave violazione dell’ordine pubblico, disturbando la quiete dei cittadini e insultando profondamente le convinzioni del fedeli ortodossi”. Furono condannate a due anni di reclusione nei campi di lavoro russi.

La sentenza fece scalpore e in favore delle tre artiste si mobilitarono l’intero mondo occidentale e tantissimi vip. Anche perché ben presto le ragazze denunciarono le terribili condizioni di vita carceraria: minacce di morte, pesanti giornate lavorative da 17 ore e vere e proprie torture psicologiche come la privazione di cibo e sonno.

Tutto questo, e molto altro, è il tour che ha toccato anche l’Italia. Infatti sul palco, dove si esibiscono due cantanti, un trombettista, un percussionista e il performer Kiryl Masheka (il collettivo, in realtà, è composto da una decina di artiste più una quindicina di persone che si occupano di riprese ed editing video da pubblicare in rete) non c’è soltanto tanta musica rigorosamente elettronica. ‘Riot Days Tour’ è anche parole e filmati che denunciano il sistema carcerario russo e le falle dell’apparato giudiziario russo, che accusano Putin di voler mettere a tacere ogni forma di dissenso, che cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica sui diritti di donne, omosessuali e comunità LGBT.

Insomma, uno spettacolo più politico che musicale che sposa in pieno la mission del collettivo russo che usa le 7 note più come pretesto per portare avanti una battaglia che probabilmente non avrebbe la stessa eco e rimarrebbe silenziosa se non si servisse di un mezzo tanto potente (in quanto popolare e democratico) come la musica.

By Germana Zappatore

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