Sanremo e i (nostri) fantasmi che non sono

by Felice Sblendorio
Mahmood (vittoria).

“In Egitto dovevi vincere!!! Il Sanremo egiziano non quello italiano”, “A quando il burka per le italiane”, “Festival italiano o africano?”, “Quest’anno lo scimmione si è presentato senza Gabbani”, “HA IL PERMESSO DI SOGGIORNO???”, “atto di sudditanza al Califfato del perbenismo radical chic”, “Il festival dell’immigrazione… da Modugno a Maometto”, “Mah No vogliono clandestini in Italia al Sanremo fanno vincere un marocchino vergogna povera Italia come sei caduta in basso”.

Confesso: aveva ragione Giorgio Gaber quando nel suo ultimo album cantava: “io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. E in queste ultime ore, paradossalmente anche per quel fantasma chiamato Sanremo che è lo specchio del nostro modo di essere italiani come ha detto Barbara Alberti ad Agorà su Rai3, non si comprende quale sia la quota preponderante: fortuna o purtroppo. Ci sentiamo italiani sì, nonostante tutto. Nonostante ci siano commenti come quelli copiati con dovizia di particolari in questo pezzo con errori e orrori compresi. Siamo noi, siamo questo Paese alla deriva di un ragionamento schizofrenico sulle cose che si verificano nella nostra quotidianità. Un Paese dove l’odio è stato ammesso e accettato in quel nostro potentissimo e sacro spazio comune: il dibattito pubblico. Dove le parole hanno perso la loro forza primordiale, la consapevolezza ultima, per chi le usa, della violenza che possono sprigionare.

Sanremo è uno dei pochi riti collettivi che rimangono a questo povero Paese. Un rito che, nel momento politico e sociale più violento e intollerante degli ultimi anni, si è trasformato in una lotta fratricida: tutti contro tutti, ognuno contro se stesso. Vince un ragazzo italiano con una bella canzone, non del futuro ma del presente, che segue lo stile di una parte del Paese che è scomparsa da ogni agenda politica: i giovani. E allora via alle polemiche. Quel ragazzo ha un cognome strano e porta con sé un peccato originale: ha un padre egiziano. Non può bastare nulla, neanche dire che sua madre è sarda, che lui non parla arabo ma il sardo oroseino, che ha visto più la periferia di Milano che altro. Nulla.

Nel paese dove si cerca un bersaglio, dove si desidera più chiusura che apertura, non è tollerabile. Uno smacco al bel canto e ai tanti italiani puro sangue che su quel palco hanno cantato di tutto e di più, meraviglie della musica e perle di puro orrore. Per quella parte di Paese, caro Mahmood, potresti cantare anche “’O sole, ‘o sole mio sta ‘nfronte a te”: non saranno mai dalla tua parte. Da quella stessa parte di società che cambia e si trasforma, che si amalgama, che cresce considerando il diverso una condizione basilare per rendere una comunità più ricca, più unita e da quella stessa parte che vorrebbe il dibattito su un festival di canzoni nel suo perimetro: fuori la politica, l’etnia e ogni tipo di strumentalizzazione favorevole o contraria che sia.

La sua vittoria, strillano tutti, è figlia del complotto, perché è una vittoria del “potere delle élite contro il popolo” che ha “tradito il voto del pubblico pagante”, ma non quello della “Donna Cannone” di De Gregori. E allora no, non è la vittoria di una bella canzone che può piacere o non piacere, come tutto (Si è mai arrivati a tanto quando hanno vinto canzoni orrende anche per delle messe sataniche? No, si gridava al massimo “più giuria di qualità” quando ancora era concesso e non venivi immediatamente tacciato di essere a libro paga di Soros).

Ma non è nemmeno la vittoria di un giovane che ha una grinta e un carisma da vendere in una canzone perfetta. Per molti la vittoria di Alessandro Mahmood, nato a Milano e cresciuto a Gratosoglio (eh sì, quartiere ztl dove si mangia caviale ogni giorno), è la vittoria del potere di queste cattivissime élite. Perché i radical chic sono fatti così: fanno vincere una canzone per fare politica, fanno vincere il ragazzo “egiziano” che è stato il meno televotato dal popolo. Una cosa inaccettabile perché premiano il meno amato dal pubblico per far capire chi comanda davvero e per propagandare l’idea di società aperta, si sa. In Italia comandano quelli “col Rolex”, artefici di tutto ciò, che festeggeranno la vittoria di Sanremo con una festa esclusiva a base di Krug Clos d’Ambonnay su un attico a New York dove si parlerà di questo loro trionfo e si commenterà la parola più usata in queste ore: #complotto! Un complotto fantasma che, invece, è trasparente come l’acqua, perché Sanremo e mille altri concorsi si vincono con due metà che formano l’insieme: giuria, giornalisti e pubblico. Quindi 50e50, semplicemente addetti ai lavori e noi. Perché se ci sono, se lottano e vivono assieme a noi, le élite guardano e pensano ad altro e non sono certo rappresentate da giornalisti che prendono molto spesso cinque euro a pezzo e insultano i tenorini de “Il Volo” in sala stampa. Infine, se la Democrazia non è al suo ultimo rantolo prima della morte non è sicuramente madre dei televoti da casa, luce distorta di un pensiero di democrazia popolare rozzo, imperfetto, allucinogeno. Tutto il resto non sono fantasmi. Come disse Eduardo De Filippo: “non esistono, siamo noi”.

Felice Sblendorio

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