Alessio Boni è Don Chisciotte, per l’eterno errare del coraggio e della follia

by Antonella Soccio
don chisciotte

Dopo “I Duellanti” di Joseph Conrad, una nuova drammaturgia e regia di Alessio Boni è approdata nel circuito del Teatro Pubblico Pugliese e in particolare al Teatro Umberto Giordano di Foggia.

Accanto all’amato attore bergamasco, attualmente in tv con due fiction La compagnia del cigno di Ivan Cotroneo e Il nome della rosa di Giacomo Battiato, Roberto Aldorasi, Marcello Prayer e il drammaturgo Francesco Niccolini, per la produzione del Nuovo Teatro di Marco Balsamo.

Alessio Boni con Serra Ylmaz e Marcello Prayer, Francesco Meoni, Pietro Faiella, Liliana Massari ed Elena Nico ha proposto una rilettura del Don Chisciotte della Mancha di Miguel Cervantes, un mito per molti autori – uno tra tutti Milan Kundera – considerato il caposaldo della nascita del romanzo moderno. Un’opera pubblicata agli inizi del ‘600 e dunque in pieno siglo de oro, ma che non ha mai perso il suo straordinario fascino conoscendo infiniti adattamenti televisivi e cinematografici, uno per tutti il travagliatissimo e incompleto Don Quixote di Orson Welles. Fino al recente “The man who killed don Quixote” di Terry Gilliam.

Chi non conosce la storia di Don Chisciotte e Sancio Panza? Le loro avventure nel librone di mille pagine, tra i più belli mai scritti al mondo, sono state ridotte sulla scena da Alessio Boni e Niccolini in due atti, grazie alla ricerca dell’armonia tra testo e contesto storico attuale e con un linguaggio nuovo, che non è quello epico di Cervantes.

Come ha detto l’attore in una intervista a Sipario, “la soglia di attenzione, i suoi ritmi, il suo immaginario sono la difficoltà principale di ogni progetto teatrale”.

L’attenzione in questo Don Chisciotte non viene mai meno. Le formule adottate per le varie scene sono di così grande impatto da lasciare stupefatti. Ronzinante, azionato da un attore, sembra un animale vero. Empatico e tenero.

In una scena scarnificata ed essenziale- in cui l’unica attrezzeria è il letto di pazzia e di morte del Cavaliere errante sorvegliato sempre dalla morte medievale del Tristo Mietitore- primaria, grigia e desertica come la Mancia, che rinvia alla follia onirica del personaggio, gli attori si muovono sulle diagonali e in orizzontale, come in un teatro dei pupi a grandezza naturale. A dimensione umana.

Il sognatore Chisciotte scambia per la proiezione di un mondo nobiliare in via di estinzione, rappresentato nella coppia dei duchi come degli anziani disabili infermi e instabili nei loro carrelli e stampelle ferrate, l’umanità brulicante, fatta di pastori, contadine, chierici, popolani. Ciascuno con un proprio dialetto: il calabro siculo per la grossolana ed aggressiva moglie di Sancio, l’abruzzese per i pastori, il veneto per la colombina del nobile, impazzito col senno sulla luna per l’aver letto troppi cicli cavallereschi.

Tre cose servono ad un cavaliere errante: una armatura, delle gesta epiche con una donna da amare e salvare e uno scudiero con cui condividere i territori conquistati.  

Le soluzioni trovate per il mondo dei cicli bretoni fuori tempo massimo sono sì grottesche, ma scavano nell’immaginazione, in qualcosa che è continuamente evocato. Se nelle tante rappresentazioni anche cinematografiche la lotta contro i Giganti-Mulini a Vento viene sembra trasformata in farsa, nello spettacolo di Boni viene affidata ad un coro “greco”, composto dal curato, dal medico barbiere, dalla serva e dalla sorella, utilissimo ad immaginare quanto accade. Il Cavaliere che combatte contro i mulini a vento con la sua sfida insensata è altro dalla solita macchietta che tutti conosciamo sin da bambini.

Molto esilarante il confronto tra Boni, come sempre molto carico e drammatico, e una Yilmaz, super comica. La coppia funziona benissimo. Il Sancio Panza dell’attrice turca è geniale, per fisicità e tempi di scena.

Due i momenti più folgoranti dello spettacolo: il duello col baccelliere Sansone Carrasco, che nel romanzo è il Cavaliere degli Specchi, o Cavaliere del Bosco, e poi, nella battaglia che sancirà la sconfitta dell’eroe a Barcellona, il Cavaliere della Bianca Luna, ma che nella riduzione teatrale è tutti questi personaggi insieme, in una moltiplicazione di pezzi e di visioni straordinaria, resa grazie alla scomposizione del cavallo di Carrasco (come ad indicare anche la frantumazione dell’io nella follia); e l’incontro fatato con Dulcinea, che come nel testo non appare mai. Sul palco si evocano il suo corpo e gli occhi in una danza d’amore psichedelica con luci in proiezioni.

Straordinari anche i suoni e tutto lo spettacolo uditivo che si vive sul palco. Il vento, le greggi, le pale dei mulini, gli ululati, il fruscio della sterpaglia.

Anche gli spettatori errano e pugnano insieme ai due eroi.

“Ben ti puoi chiamar fortunata sopra quante vivono in terra, o sopra le belle, bella Dulcinea del Toboso, da che t’è toccato in sorte di aver soggetto a’ voleri tuoi e pronto a qualunque tuo servigio sì valoroso e celebre cavaliere com’è e sarà don Chisciotte della Mancia; il quale (e ne vola già fama pel mondo) ha ricevuto l’ordine di cavalleria, ed oggi ha disfatto il più gran torto che mai fosse immaginato dalla giustizia, e compìto dalla crudeltà! Oggi ho io tolta di mano la frusta ad un nemico spietato che senza motivo alcuno batteva un dilicato fanciullo!”

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