Frame, il silenzio della solitudine nei corpi di Hopper col Teatro Koreja

by Antonella Soccio

Quando alla fine dello spettacolo la ragazza di Morning sun realizza a sorpresa una barchetta di carta che libra sulla finestra della solitudine, il pubblico si ritrova col cuore aperto, rapito dalla luce e dal movimento ondeggiante del vascello e della vita che avanza leggiadra.

Tanti si sono lasciati ispirare da Edward Hopper – dal fotografo Richard Tuschman con le “Hopper Meditions” a Michele Mozzati, scrittore e autore teatrale e televisivo, che ad Hopper ha dedicato le storie contenute nel suo libro “Luce con muri”, pubblicato da Skira- ma la Co-produzione Teatro Koreja e Compagnia Teatropersona fa qualcosa in più, immaginando una vita e una trama per i personaggi metafisici e senza tempo delle opere del grande pittore americano.

Room, Marittima a Cape Cod, Ufficio in una piccola città, Escursion into philosophy, Nightawks, Two-comedians, Soir bleu, i personaggi dei quadri di Hopper prendono corpo, in una scena del tutto muta, come silenziose sono le tele splendide e sospese che tanto hanno affascinato il mondo dell’arte. Ideato da Alessandro Serra con Francesco Cortese, Riccardo Lanzarone, Maria Rosaria Ponzetta, Emanuela Pisicchio, Giuseppe Semeraro per la regia, scene, costumi e luci Alessandro Serra e la realizzazione delle scene di Mario Daniele e la collaborazione ai movimenti di scena di Chiara Michelini, lo spettacolo del Teatro Koreja andato in scena al Teatro Umberto Giordano di Foggia propone una novella visiva, senza trama e senza finale.

“C’è un dentro e c’è un fuori che osserva, ma non vi è alcun intento voyeuristico. Nessun evento sensazionale. Semplicemente un attimo in cui tutto cambia, senza clamore”, ha spiegato il regista.

Non c’è un quadro di Hopper che non abbia una apertura, una finestra, una porta, un porticato sull’America. Quel riquadro è insieme la tela e l’altrove sul palco. Uno strumento ed artificio della messinscena, divenendo ora un letto, ora una parete, ora un tavolo, una stanza claustrofobica, un inconscio. Un piano inclinato verso le emozioni impresse nel gesto attoriale. Nei movimenti. Le figure sono sempre ai margini di una soglia: una finestra, una vetrina di un bar, l’uscita di sicurezza di un teatro, un sipario socchiuso, una porta, il finestrino di un treno, un cinema.

Lo spettatore si trova immerso nel silenzio dell’incomunicabilità a metà tra Café Müller di Pina Bausch, Michelangelo Antonioni e i primi lavori sulla coppia di Marina Abramović. Solo che qui non si urla, né si danza, è il gesto puro, la forma di Jerzy Marian Grotowski a dare vita ai personaggi delle tele.

I corpi si rincorrono attorno al piano, si tralasciano l’un l’altro, si sfiorano, si cercano per poi fingere di ignorarsi, dandosi le spalle, falcando le diagonali del palcoscenico.

È sicuramente il tema della coppia quello che più affascina nelle varie sezioni dello spettacolo, la scena arriva a toccare il sublime nel frame dedicato all’abbandono, che si rifà all’opera In the sunlight, ma sul palco invecchia solo la donna incurvata, ingobbita, rimpicciolita magnificamente, mentre l’uomo che se ne va la copre con gli abiti e il dolore degli affanni. Lo spettacolo è muto e mette sicuramente a dura prova chi non mastica troppo il teatro contemporaneo, ma è arricchito da musiche straordinarie come Planting Holes dei Tindersticks o The Chopin Project di Olafur Arnalds e Alice Sara Ott.

I suoni sono metallici: una pellicola che scricchiola, una tazza che stride sul tavolo del bar, un letto cigolante. Fino alla magia della luce, che ha suono e colore, nello spettacolo. Indimenticabile.

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