Pueblo, l’intenso racconto sugli ultimi di Ascanio Celestini

by Giuseppe Procino

È andato in scena il 7 marzo, al Teatro Comunale Rossini di Gioia del Colle, all’interno della stagione teatrale diretta dal Teatro Pubblico Pugliese, Pueblo di Ascanio Celestini. Ascanio Celestini è un cantastorie sublime, un umile animale da palcoscenico, delicatamente graffiante e incisivo come pochi, in grado di modulare il racconto dosando con abile maestria e profonda intelligenza, un’abilità che sembra più un superpotere.

Difficile spiegare questa dote in maniera razionale e che agisce sullo spettatore in maniera sottile e sottotraccia, non te ne accorgi, ma alla fine sei lì che non sai se sorridere, ridere, commuoverti. Uno spettacolo di Celestini non lo puoi giudicare mentre sei seduto e stai ad ascoltare dove vuole portarti, lo puoi giudicare solo dopo che si sono accese le luci in sala e senti che qualcosa in te è diventato pesante. Un groviglio che ti è cresciuto nello stomaco, da elaborare lentamente. Non capita spesso di ritrovarsi di fronte ad uno spettacolo simile. Pueblo è così.

Il “pueblo” è la fauna che popola la periferia di una città, un’enciclopedia umana di gente qualunque che incontri ogni giorno, al supermercato, in coda alla posta, agli angoli delle strade o che semplicemente, come il narratore, osserva dalla sua finestra ‘reale’ del suo monolocale di 35 mq o da quella ‘virtuale’ della cronaca in tv.

Sono la cassiera di un supermercato, una barbona che un tempo è stata una bambina a cui tutti hanno strappato l’infanzia, un immigrato che fa il facchino in un magazzino, la proprietaria straniera di un bar in cui ci sono le slot machine. Ognuna di queste vite si fonde e confonde con le altre, ogni volta che si incrocia lo sguardo dell’altro, ogni volta che si sceglie di agire nel bene. Ognuno di loro sogna qualcosa di più grande, ma deve accontentarsi. E poi c’è lo Stato, assente o punitivo, fatto di regole ferree e depredato dell’umanità.

Celestini per ottanta minuti dà voce e dignità agli ultimi della lista, la dignità che la società non è in grado di concedere e si conferma un artista ‘vero’ che, in un’apnea pazzesca, ti racconta con un lungo monologo circolare il racconto di un’umanità dimenticata e degli ultimi, gli ‘invisibili’, e della morte, sempre così ‘viva’ li, nell’ombra del mondo.

Un monologo intenso, magistrale, senza un attimo di tregua, accompagnato dalla fisarmonica ed il pianoforte di Gianluca Casadei. Uno spettacolo efficace, necessario come atto di resistenza al cinismo dilagante ed alla crescente ignoranza emotiva. Celestini ci obbliga a guardare fuori, giù per strada, a scendere dall’attico della nostra confort zone arredata dall’ultimo guru del design eco-sostenibile (laddove la bellezza esteriore non sostiene più l’essere umano) e cominciare a riflettere su quanto la vita sia una questione di statistica e quindi fortuna, come le slot machine.

Nascere nella parte fortunata del mondo, della città, del quartiere, è un privilegio che non ci dà diritto di giudizio sulle scelte, sulle storie, sulle vite altrui. È solo una questione di fortuna. Celestini ce lo disegna magistralmente e ce lo sbatte improvvisamente in faccia, come un rumore improvviso nella calma del buio, mentre stiamo dormendo sotto le coperte delle nostre certezze. Quello che l’artista romano ci narra è di fatto una storia semplice, una storia qualunque in cui il messaggio è la denuncia dell’inumano, la denuncia del nostro coinvolgimento ogni volta che  abbassiamo lo sguardo,  ogni volta che ci rifiutiamo di ascoltare l’altro, ogni volta che potevamo fare e non lo facciamo,  ogni volta che non diamo un valore a quello che abbiamo.

Alla fine dello spettacolo, resta un profondo senso di colpa ed un’angoscia sottile, ma va benissimo così. Sarebbe bello se il teatro avesse sempre voglia di prenderci a schiaffi.

Giuseppe Procino

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