Vito Giotta e l’arte di vendere sogni per il pubblico con la danza. Anche per strada

by Anna Maria Giannone

Dalla Puglia a Marsiglia e ritorno. Il percorso artistico di Vito Giotta, danzatore e coreografo del Balletto Nazionale di Marsiglia inizia da Castellana Grotte, dove in questi giorni è tornato in occasione dell’undicesima edizione di World Dance Movement, appuntamento ormai imperdibile per la danza internazionale in corso fino al 28 luglio. Originario di Putignano, Vito Giotta a 18 anni si sposta a Firenze grazie a una borsa di studio del Balletto di Toscana diretto da Cristina Bozzolini.

La sua formazione internazionale inizia a 22 anni, quando viene selezionato per il progetto Europeo diretto da William Forsythe, Wayne McGregor, Angelin Preljocaj  e Frederic Flamand. Con  Flamand direttore, nel 2007 entra a far parte del Balletto Nazionale di Marsiglia divenendo membro stabile della compagnia. Qui la sua strada incrocia quella dello spagnolo Angel Martínez Hernández con cui Giotta costituisce un duo coreografico da ormai  tredici anni. Un sodalizio artistico che si porta dietro tutta l’esperienza nell’ensamble del Balletto Nazionale di Marsiglia, maturata lavorando con i nomi più importanti della scena coreutica contemporanea  internazionale. In questi giorni al World Dance Movement  Giotta  è impegnato come insegnante,  per la sezione formativa della kermesse che ogni anno riunisce in Puglia professionisti e allievi di tutto il mondo, e  come artista.  Per la sezione Festival  del progetto il duo Giotta e Hernández  ha già presentato al pubblico lo scorso 19 luglio il lavoro Maybe Tomorrow, produzione del Balletto Nazionale di Marsiglia che conferma la precisa volontà del prestigioso centro coreografico francese di sostenere le creazioni dei propri danzatori.

Da molti anni hai lasciato l’Italia. Che differenza c’è nell’attenzione alla ricerca per la danza nei diversi contesti in cui hai lavorato?

Porto l’esperienza della Francia, in cui lavoro da tempo. Qui la ricerca è molto più sostenuta a livello istituzionale. L’esistenza stessa di  centri coreografici come Il Balletto di Marsiglia è segno di un grande valore dato alla sperimentazione e allo studio.  Questo sostegno  si estende anche all’educazione e alla diffusione della conoscenza del linguaggio della danza. In Italia c’è tanto lavoro di ricerca coreografica ma spesso rimane affidata ai soli artisti. C’è meno tutela e meno sostegno. In compagnia ci sono molti italiani, bravissimi danzatori e coreografi che hanno trovato spazio fuori dai confini nazionali.

Hai ricordato l’attenzione francese all’educazione alla danza. Quale approccio credi sia utile per avvicinare nuovo pubblico?

In un mondo che va così veloce non è facile appassionarsi a un linguaggio artistico come la danza. Sono scoperte che si fanno piano, attraverso un lavoro di avvicinamento. Di sicuro passare per i giovani è la strategia più utile, attraverso percorsi di educazione alla visione e di sensibilizzazione a questa arte. Poi sono importanti eventi come World Dance Movement, gratuiti e  nelle piazze. Non c’è modo migliore per sorprendere anche sguardi nuovi. Noi artisti abbiamo anche una grande responsabilità: dobbiamo sempre ricordarci del pubblico. Spesso  ci concentriamo solo sui nostri desideri di ricerca, tralasciando la necessità di arrivare a un risultato che permetta a chi guarda di viaggiare con te. In Francia c’è un’espressione molto bella che dice che gli artisti “vendono i sogni”: è importantissimo far sognare il pubblico.

Ci sono altre arti del contemporaneo con cui dialoga la  vostra danza?

La relazione fra tutti i linguaggi artistici del presente è il contatto che si stabilisce con contemporaneità, con le sollecitazioni che offre e che noi trasformiamo in arte. Personalmente amo molto la letteratura e da lì traggo molti stimoli. Angel (Martínez Hernández) attinge più dal visivo, si concentra maggiormente sullo studio delle immagini guardando alla pittura, la scultura, la fotografia. Il nostro lavoro si nutre molto delle nostre culture di provenienza, lui è spagnolo e io italiano: la nostra unione artistica mette in dialogo costante le nostre radici, questo ci permette di scoprire sempre l’uno dall’altro.

Maybe Tomorrow è il titolo del lavoro che avete presentato al Word Dance Movement. Di cosa parla?

Il pezzo è una riflessione sulla società, condotta in maniera molto sottile,  senza citazioni dirette. Si divide in due parti. La prima trae ispirazione da La Paranza dei Bambini di Saviano. La coreografia ha voluto mettere in luce l’inganno di una società che ci fa credere onnipotenti ma ci sta solo imprigionando. La seconda parte si apre a una speranza, quella di poterci liberare dalla rete che ci tiene, di riuscire a romperla. Forse, domani, se ci guardiamo e ci riconosciamo, riusciremo a fare assieme cose più belle e più importanti. In scena prendiamo questa luce e la regaliamo al pubblico.

Quale strada deve intraprendere il balletto contemporaneo per rinnovarsi?

Deve diventare più popolare, per questo la danza si sta spostando nelle strade, sta diventando molto più urbana. Credo sia importante perseguire in questa strada. Portare la gente nei teatri è una conquista che deve partire da fuori, dal rapporto vivo con la società.

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