American Horror Story, eclettica e postmoderna antologia televisiva

by Gabriella Longo

Se un’America governata da Trump non sia già di per sé un motivo sufficiente per l’inesorabile scivolata del mondo verso la fine (Cult, season 7), o l’arrivo del demonio in persona su un pianeta nel pieno dell’inverno nucleare (Apocalypse, season 8) appaia tutt’altro che un segnale di rinascita, Ryan Murphy & Co ci rassicurano: per il prossimo autunno avremo nuovamente qualcosa di cui preoccuparci.  

American Horror Story tornerà con una nona stagione dal titolo 1984 (che sia un ambizioso riferimento al romanzo di Orwell?) e sarà – promette il produttore esecutivo Tim Meaner – “davvero spaventosa, ma molto divertente”. Un breve trailer (pubblicato dallo stesso Murphy sul suo profilo instagram) e poche altre informazioni: per quanto riguarda lo stile, seguirà il filone nostalgia degli 80s (così tanto rivisitato negli ultimi anni dal mondo della tv), mentre, in quanto al cast, fra le vecchie conoscenze a fare ritorno sarà Emma Roberts; poi accanto a qualche interessante new entry fra le fila del circo degli orrori di Murphy e Falchuk, la certezza dell’assenza di Evan Peters, deciso a ritirarsi per una stagione e concentrarsi sulla musica.

In attesa di ulteriori informazioni sulla serie, si riflette sulle ragioni del suo successo.

Il fenomeno American Horror Story, il cui debutto con Murder House risale al 2011, è forse l’antologia televisiva più rappresentativa dell’estetica postmoderna, nonché la più nera delle contro-narrazioni americane. In quanto al primo punto, la serie di Murphy e Falchuk si annovera senza problemi fra le più eclettiche, e si sa, (lo hanno detto i vari Lyotard e Jencks) l’eclettismo, ovvero il gusto per la commistione di linguaggi (la parodia, la satira, il citazionismo, il trash, il vecchio, il nuovo, l’horror, il grottesco, il macabro) è il pilastro della post modernità che è anche, per estensione, l’era della complessità.

A metà tra il fascino per il kitsch e (spesso) il gusto verso il fetish, AHS ha inoltre ridisegnato e ampliato i confini delle storie orrorifiche: l’obiettivo qui è diverso, non c’è niente che faccia paura di per sé, a meno che non vengano scelte le storie che l’America non dice, e allora sì che la cosa inizia a farsi raccapricciante. Ad essere selezionate dai creatori, non sono, dunque, storie di paura in senso stretto, ma tutto ciò che la cultura occidentale sceglie di tacere, ovvero quelle piccole story che si contrappongono alla grande history, il rimosso dell’America sublimato da un immaginario gotico. Ma perché, dunque, raccattare tragici scampoli di passato per cucire un abito dai toni inquietanti? Per la terra promessa dei sogni e delle speranze, per il mondo oltreoceano dove tutto è possibile, per il posto della auto-mitologizzazione, questo non è che un meccanismo rassicurante di marginalizzazione del terrore, un terrore che invece è molto più quotidiano di quanto si possa pensare. Insomma, sarebbe equivalente al dire razionalmente che certe cose accadono solo nei film dell’orrore, e per questo non sono reali (salvo poi, una volta ritrovatisi a viverle realmente, esclamare: “Guarda! Proprio come nei film!”).

Si pensi ai luoghi-simbolo delle varie stagioni della serie, divenuti ormai spazi iconici dell’immaginario mainstream: l’Hotel Cortez della quinta stagione è la proiezione del Cecil di Los Angeles il quale, costruito ad inizi Novecento, annoverava una serie di omicidi e suicidi fra i suoi avventori, o i vari rimandi agli orrori del secolo scorso e ben più in là che riaffiorano in superficie, fra vicende razziali legate al colonialismo (come Kathy Bates in Coven nei panni della serial killer Madame Delphine LaLaurie, una popolare socialité del 1800 di New Orleans, avvezza a torturare e uccidere i suoi schiavi), ad Auschwitz (come il Dottor Arthur Arden di Asylum che si ispira a Josef Mengele, un medico delle SS che operava nel campo di concentramento usando i prigionieri per i suoi folli esperimenti medici), sino a giungere alle moderne logiche dei reality show o alla presidenza degli Stati Uniti.

Ma una antologia come AHS, non solo ci dice molto sulle ansie, le insicurezze, i sensi di colpa del rimosso di un’intera nazione a stripes and stars, ma sulle responsabilità (se così le si vuole definire) storiche della stessa Europa. Il discorso sulla razionalizzazione, però, non convince fino in fondo, perché bisogna essere disposti ad ammetterlo, l’Illuminismo è stato un glorioso fallimento, e l’Europa, che ne è stata l’incubatrice, ne è la dimostrazione. Ed ecco spiegato il successo di una serie come quella di Murphy e Falchuk: con uno stile che strizza l’occhio alla pop culture contemporanea, American Horror Story è intrisa di quella fascinazione del pubblico sempre più orientato verso l’irrazionale, l’immaginifico, il sovrannaturale, o qualsiasi anfratto ombroso che “i lumi della ragione” non sono, ormai da tempo, più in grado di rischiarare.

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