Chernobyl, vivisezione di una catastrofe

by Gabriella Longo

Era l’1:23 del 26 aprile del 1986 quando il test di sicurezza della centrale nucleare V.I. Lenin (Ucraina Sovietica), provocò la fatale esplosione del nocciolo del reattore 4, più comunemente ricordato come il disastro di Chernobyl. Ci si è spesso chiesti come la HBO avrebbe colmato il vuoto lasciato dalla fine del Trono di Spade, il colosso televisivo che ha imperato per ben 8 anni e che è diventato un fenomeno dagli echi mediali di vastissima portata. Ed ecco arrivare Chernobyl, una miniserie firmata Craig Mazin che, pur non avendo la pretesa di accompagnarci così a lungo, scoperchia il calderone delle cose in stato di perenne latenza.

Anticipata dallo score più alto mai registrato su IMDB per una serie tv dopo la messa in onda di soli tre episodi e con un punteggio di 9,7 rispetto ai 9,5 e 9,4 di Breaking Bad e Il Trono di Spade, Chernobyl è stata per gli autori una vera fatica di Ercole: cinque anni di ricerche da parte di Mazin, che nonostante due Scary Movie e due episodi di Una notte da Leoni alle spalle, ha saputo raccontare una dolorosa vicenda della storia collettiva in appena cinque episodi (diretti da Johan Renck).

Cinque episodi affilati come sciabole, dagli spigoli senza alcuna smussatura, che puntano a ripercorrere la causa di una catastrofe nazionale (e mondiale), la quale si scopre essere dentro ragioni che paiono briciole se rapportati agli effetti. L’atmosfera è esattamente quella che ci si aspetta se, all’improvviso, l’aria diventasse tossica e se, ad un certo punto, non si vedesse spuntare più il sole, se tutto divenisse di una indistinta patina livida di una stanza d’ospedale, di quelle in cui presero ricovero gli ustionati esposti alle radiazioni o quelli che guardarono il meraviglioso spettacolo della nube scintillante allo xeno dal ponte di Pryp’’jat, senza sapere che quella sarebbe stata la causa del loro avvelenamento (la fotografia è di Jakob Ihre); intanto suoni spettrali scandiscono il ritmo di una danza metallica per le cinque ore totali, realizzati mediante synth dalla compositrice islandese Johann Johannsson.

Chernobyl non è una visione retroattiva dei fatti che accaddero prima e dopo la notte del 26 aprile, ma una vivisezione chirurgica degli stessi, raccontata da molteplici punti di vista: da quella dei civili come Lyudmilla Ignatenko (Jessie Buckley) e di suo marito pompiere giunto a spegnere l’incendio a Chernobyl, degli scienziati e degli ingegneri nucleari come Valery Legasov (Jared Harris), chiamato sul posto da Mikhail Gorbachev (David Dencik) per indagare assieme all’ufficiale di partito Boris Shcherbina (Stellan Skarsgard), oppure da quella del fisico nucleare Ulana Khomyuk (Emily Watson), che prima di tutti aveva capito le dimensioni di quello che era successo mentre cerca invano di convincere il partito a prendere le misure necessarie. Ognuno dei quali, legato indissolubilmente dal filo invisibile dell’approssimazione e degli insabbiamenti del governo dell’Unione Sovietica, dissoltasi simbolicamente dentro il nocciolo del reattore 4.

Non c’è un intento di marcare sensazionalisticamente la drammaticità dell’evento ma di ricostruirne (anche) scientificamente l’evoluzione, mantenendo una impressionante verisimiglianza ai fatti reali all’interno dello storytelling. E poi, la domanda che apre e chiude il cerchio, forse la più straziante e quella più difficile a cui rispondere, è anche quella che racchiude il senso dell’irrisolutezza di vicende come questa, della quale si pagano le conseguenze tutt’oggi e per cui è sempre giusto continuare a chiedersi: “Qual è il prezzo delle bugie?”.

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