Games of Thrones, finale agrodolce per la serie dei record

by Gabriella Longo

A più di qualche ora dalla chiusura del cerchio, si è divisi fra qualche momento nostalgia e non poche amarezze. Ma il tempo non ha spento l’incendio avvampato negli ultimi giorni attorno a Game of Thrones: e non si tratta di quello appiccato dai draghi di Daenerys, ma dagli stessi fan, rimasti con l’amaro in bocca per certe scelte degli sceneggiatori di una delle serie tv più seguite di sempre.

Tratta dai romanzi di George R.R. Martin, dal 2011 sino ad oggi è diventata praticamente un blockbuster della televisione; firmata HBO, si è imposta sul piccolo schermo qualche anno prima che Netflix entrasse nel business delle serie originali. Aveva una cadenza settimanale, e per le prime cinque stagioni seguiva di pari passo Le cronache del Ghiaccio e del Fuoco dell’autore americano: tutte le cose avevano il loro tempo, i personaggi venivano indagati pian piano, e nonostante i fan avessero imparato a scegliere un personaggio preferito in un episodio e vederlo perire in quello successivo, ci sono state evoluzioni di caratteri e relative prove d’attore che non sono morte con loro.

Poi ad un certo punto, la linearità della vicenda ha subito una battuta d’arresto: è successo che gli sceneggiatori Benioff e Weiss, iniziassero a sentirsi sempre più liberi dalla storia di Martin e che quest’ultimo, dal canto suo, abbia dato un fermo al prosieguo dei fatti di Westeros. Smentita la storia di un accordo con i co-creatori della serie tv – che avrebbero voluto l’uscita dei libri già scritti a serie conclusa-, mancano comunque ancora all’appello The Winds of Winter e A Dream of Spring. Libri che George R.R. Martin ammette di non aver mai iniziato, probabilmente sopraffatto dalla paura di deludere il pubblico, probabilmente perché non poteva aspettarsi tutto quello che è successo o quanto grande sarebbe diventato il suo gioco di troni. Probabilmente.

Ma l’autore non sembra essere rimasto indifferente davanti allo sviluppo – del tutto discutibile – che ha avuto la sua creatura nelle mani di altri: “Avrei voluto più stagioni, ma lo capisco. Dave e Dann hanno altre cose da fare e sono sicuro che gli attori, sotto contratto per sette o otto anni, abbiano altri ruoli da ottenere. È giusto così. Non sono arrabbiato né niente, ma ho questa piccola inquietudine”.

Inquietudine che non è solo di Martin, ma anche del milione persone che ha deciso di sottoscrivere una petizione su Change.org per chiedere a Hbo di rigirare gli ultimi episodi. È come se questa ultima stagione, sia stata un po’ la somma di tutte le volte che si è storta la bocca davanti alla piega che stava prendendo la conclusione, e che abbia, insomma, condensato una serie di umori affatto distesi in merito ad un epilogo decisamente troppo frettoloso rispetto a quelle che erano state le premesse. Buchi di sceneggiatura, cose che accadono all’improvviso, ingenuità imperdonabili, che alla fine distruggono in un attimo quello stesso storytelling che era la vera forza di Game of Thrones; un paio di esempi: fondamentalmente a che cosa è servito scoprire che Jon Snow è, in realtà, un Targaryen? A far impazzire definitivamente Khaleesi, dicono alcuni, ma, arrivati a questo punto della storia, è chiaro che questa giustificazione suoni per la maggior parte (e giustamente) un tantino banale. E poi, Bran Stark, il “Corvo a tre occhi” che tutto (o quasi) vede… che chiede dove sia finito il drago di Daenerys.

Insomma, il fandom accusa Beinoff e Davis di pigrizia e di un fanservice sin troppo spudorato, e da un lato sarebbe decisamente da comprendere la rabbia di chi non solo in questi otto anni si è appassionato alla serie, ma è anche un soggetto pagante un abbonamento ad una piattaforma. Lontani dal voler approfondire cosa non ha funzionato nell’ultimo GOT o dall’aprire una diatriba circa la paradossale richiesta su Change.org (ovviamente respinta), quello che risulta interessante sottolineare, è il modo in cui l’opinione del pubblico risulti decisiva nell’evoluzione di un prodotto televisivo di così vasto consumo.

Con il trailer del film di Sonic, diffuso in rete nei primi giorni di maggio, è stato lo stesso; solo che questa volta le richieste sono state molto più che accolte: ai fan non è piaciuto il look del porcospino blu, e il regista Jeff Fowler, dopo una pioggia di critiche, ha annunciato su Twitter la modifica del design presa a cuore dalla Paramount.

Il mondo della tv e del cinema è cambiato, cambia giorno dopo giorno, e sicuramente – sebbene non abbia avuto un reale sviluppo – la storia della petizione è la spia più evidente di questa evoluzione delle cose, e di sicuro rientrerà a far parte delle edizioni aggiornate dei libri di storia del cinema. Anche Game of Thrones è cambiato: per tutto l’arco di tempo che ha ricoperto (ben otto anni) si è trasformato da prodotto di nicchia ad un fenomeno dalla portata più generalista, quando ha iniziato a contare un numero di spettatori sempre più alto ed eterogeneo. Nessun processo ai prodotti pop(ular), anzi. Ma posto che il feedback del pubblico riesce, se non a cambiare materialmente le cose, quantomeno a creare un caso mediatico di questa portata, viene da domandarsi: dov’è che va a finire il valore artistico (in tal caso) di un prodotto cinematografico? Le logiche del marketing staranno davvero prevalendo rispetto all’impronta autoriale?

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