Kingdom e gli zombie a cui (non) siamo abituati

by Gabriella Longo

Dinastia Joseon, medioevo, Corea. Mentre il vaiolo decima la classe contadina, il re è misteriosamente chiuso nel silenzio delle sue stanze, probabilmente morente o gravemente ammalato anche lui, avvicinato soltanto dalla giovanissima moglie incinta, dal primo ministro e dal medico. Nemmeno a suo figlio, nonché principe ereditario, Lee Chang (Ju Ji-hoon) è permesso di vederlo. Ma in realtà bastano pochi minuti – e non bisogna essere nemmeno troppo fan di The Walking Dead– per capire che sua altezza reale, circondato dagli incensi per coprire l’odore delle carni putrescenti, non è affetto da vaiolo, ma da un morbo che trasforma le persone in cannibali notturni.

Questa è Kingdom, la nuova serie originale di Netflix, scritta da Kim Eun-hee e diretta da Kim Seong-hun, uscita lo u.s. 25 gennaio, e non senza alcuni punti di domanda. Molti di questi riguardano la credibilità dell’ibridazione fra un dramma in costume, ambientato nel medioevo coreano, e una storia dei zombie. Altri riflettono sulla cattiva gestione delle tempistiche nell’arco di soli sei episodi i quali, peraltro, si chiudono con un cliffhanger non particolarmente apprezzato.

E invece, forse sono proprio quelle apparenti mancanze a costituire l’asset per un serial che, tra l’altro, vanta un investimento di 1,78 milioni di dollari per episodio, sintomo della più recente tendenza di Netflix ad incentivare cinematografie nazionali al fine di contrastare l’egemonia dei prodotti americani.

Diremmo: soldi ben spesi, perché non solo la commistione dei generi cinematografici funziona, ma è persino più valida e meno sperimentale di quanto si possa pensare. Una trama coerente ed estremamente lineare, forse fin troppo per alcuni; ma il problema vero non è nella regia (peraltro impeccabile), quanto nell’ormai consolidata abitudine del consumatore a divorare prodotti audiovisivi nei quali gli è fornita una considerevole quantità di informazioni. C’è sempre una giustificazione narrativa ai comportamenti di un villain, o una (più o meno) valida motivazione psicologica dietro alle sue azioni o a quelle degli altri caratteri (vedi Game of Thrones, al quale, peraltro, Kingdom sembra essere molto grata).

Ma in assenza di una pluralità diegetica, o di un (back) ground attorno a certi personaggi, chi guarda resta orfano di giustificazioni: è il caso, ad esempio, del primo ministro (Ryu Seung-ryong) e di sua figlia, la perfida regina Cho (Kim Hye-jun), così come della dottoressa del sanatorio Seo-bi (Bae Doo-na), e anche dello stesso Mu-yeong (Kim Sang-ho), fedele guardia del corpo del principe.

Ma questa non deve necessariamente considerarsi un’ingenuità. Anzi, gli schieramenti e le linee d’azione appaiono comunque chiari e delineati: da una parte i membri del clan Hak-jo, fra cui la regina e suo padre, trincerati dentro al palazzo reale nel quale c’è aria di cospirazione ai danni del futuro erede al trono; dall’altra il giovane principe, ricercato per tradimento alla corona e in fuga dalla corte per trovare una soluzione alla malattia. “Volevo essere diverso da chi ha abbandonato i deboli”, dice nella 1×05. E dà presto prova di ciò, dimostrandosi capace di combattere in prima linea contro orde di zombi e difendere il suo popolo, dal quale non può che ricevere in cambio consenso e fedeltà. E la prova che il pubblico è capace di rinunciare a spesso inutili “spiegoni”, è anche la caratterizzazione totalmente ironica del personaggio interpretato da Jeon Seok-ho, il quale anziché ricoprire le mansioni che la sua alta carica governativa gli imporrebbe, si ritrova goffamente a bramare le attenzioni della dottoressa, nonché a fuggire a gambe levate difronte ai mostri non appena ne ha la possibilità. Non conosciamo altro sul suo conto, ma abbiamo ben chiara la sua posizione nell’economia della vicenda, esattamente come quella di tutti gli altri. Ci sono i forti, ci sono i deboli, ci sono i buoni, i cattivi e i pavidi. Non ci serve sapere di più; come accade dentro ad un qualsivoglia dramma shakespeiriano.

Ad una efficacissima economia narrativa, dunque, si affianca inoltre una meravigliosa fotografia, paradossalmente limpida, quasi pulita, in contrasto con la cupezza della sinossi, e con alcune scene decisamente splatter. Bellissima la figura del principe ereditario che assieme a Mu-yeong, sembrano una sorta di Don Chisciotte e Sancho, picari erranti ed estremi sostenitori di virtù cavalleresche dentro un mondo che, invece, è corrotto e immorale.

Kim Eun-hee, la nota screenwriter coreana, aveva rivelato di voler raccontare con Kingdom una “storia sulla fame” e, soprattutto, di “persone maltrattate dai potenti”.

E infatti, mentre l’horror vacui in cui versa il Dongnae conduce gli avidi a innescare il gioco dei troni, la “zombieficazione” è, non a caso, un processo inevitabile per le classi più svantaggiate, esattamente come qualunque altro male della storia, come il vaiolo o come la peste. Ecco che la malattia assume presto un nuovo significato nella nomenclatura delle storie orrorifiche, ovverosia, un effetto della negligenza delle classi dirigenti.

E questo ci appare ancora più chiaro dal numero di volte che le porte o i meravigliosi cancelli dei palazzi storici coreani, si aprono e si chiudono all’interno della serie, per tenere al sicuro chi deve sopravvivere. Sono quelli delle stanze del re, o quello del palazzo reale ma anche del sanatorio di Jiyulheon.

Accade più spesso che si chiudano, almeno per ora. Ma aspettiamo con estrema curiosità l’arrivo di una seconda stagione, fortunatamente già confermata.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.