True Detective 3, un crime drama e la banalità del male

by Gabriella Longo

Non è un paese per vecchi, verrebbe da dire citando un grande film. C’è un’America che fa davvero paura, la stessa che aveva fatto da milieu alla prima stagione di True Detective torna nella terza della serie antologica, fra le quali ci sta una parentesi metropolitana non felice, che getta una luce sulle non trascurabili crepe dell’HBO.

Evidentemente Pizzolatto, adesso anche regista, spera di recuperare, e lo fa con l’aiuto del veterano David Milch. Torna, così, un crime drama dalla diegesi complessa, tornano un detective e il suo partner, torna l’America della provincia. Anche se, per quanto forti e chiari ci giungano certi echi, impossibile è scrivere un remake della prima indimenticabile stagione con Matthew McConaughey e Woody Harrelson, così come replicarne il successo.

Ma quando, dopo un silenzio di tre anni, True Detective torna sul piccolo schermo con otto nuovi episodi (usciti lo scorso 13 Gennaio su HBO e il 14 su Sky Atlantic), si ha come la sensazione di non essere mai usciti da quelle atmosfere brutte sporche e cattive del Missouri, e di subirne tutt’ora, quasi fosse un amarcord, il nostalgico richiamo. È infatti in Arkansas che si svolgono le vicende, più esattamente nell’altopiano degli Ozark, laddove vige la dura legge del far east e gli equilibri sono tenuti assieme da un filo sottile. Non è solo un luogo della mente l’America del gringo e del ne(g)ro, ma un amaro riflesso del resto del mondo, laddove non è difficile che un nativo abbia in casa un armamentario per difendersi dai linciaggi, dove gli omosessuali nascondono in un cassetto delle preghiere per guarire, e dove le prove di un omicidio finiscono dentro ad una fossa scavata nel cuore del bosco, assieme all’innocenza persino dei poliziotti.

Con True Detective 3, Pizzolatto conferma di sapere come si scrive e dirige una serie high concept, un noir postmoderno e quindi necessariamente intricato. Un poliziesco che si dipana su ben tre linee temporali (il 1980, il 1990, il 2015), dove la fredda luce delle stanze degli interrogatori non è mai realmente accesa sull’indagato, quanto sulle autorità che si occupano della sua cattura. True Detective. Non criminal minds.

All’apice della sua carriera e fresco dell’Oscar per Green Book, Mahershala Ali interpreta magistralmente il detective Wayne Hays, affiancato nella risoluzione del caso Purcell, dalla spalla Roland West (Stephen Dorff). Un nero e un bianco, tanto per cominciare, e un’indagine durata più di vent’anni, chiusa e riaperta a seconda che si avessero un capro espiatorio e al contempo delle domande talmente ribollenti da non poter essere ancora soffocate col coperchio. Ma questa non è davvero la storia del presunto omicidio dei piccoli Julie e Will Purcell, i fratellini che un giorno non fecero più ritorno a casa dal padre Tom (Scott McNairy). È il racconto della storia di un uomo, che prima di essere il detective West era un ranger in Vietnam, un ricognitore solitario, che ha abbracciato quella solitudine per il resto della sua vita. Nella linea temporale del 2015, la giornalista/regista del docu-film sul caso Purcell scandaglia l’ormai anziano West, affetto presumibilmente da alzheimer, e gli domanda se, in passato, le teorie sulla scomparsa dei bambini fossero state sottovalutate per via della sua etnia. Ma la cifra raziale non è la vera tragedia della storia di Wayne Hays, non tanto quanto lo è l’impossibilità di fare i conti con l’unica cosa che né lui né nessun uomo è in grado di cambiare: il tempo. E a confermarlo è il fatto che venga colpito da una malattia che fa dimenticare le cose, anche se non di rado, il dubbio di una troppo consapevole damnatio memoriae si insinua nello spettatore, come potrebbe suggerire l’enigmatico sguardo rivolto a Julie Purcell nella 3×08, viva e ormai grande.

Cos’è stata la storia per lui e per tutti gli altri dopo la morte di Steve McQueen, dopo la scomparsa dei due bambini, dopo il matrimonio con la terribile e bellissima Amelia (Carmen Ejogo), esiste una storia per lui e per l’America dopo il Vietnam? Hays non sembra mai essere stato davvero protagonista della sua, semmai una vittima di essa, una vittima del tempo e di quegli eventi. “Il tempo è un cerchio piatto” aveva detto l’esistenzialista Rust Cohle (Matthew McConaughey) nella stagione uno; parole che sembrano un presagio funesto di quello che sarebbe stato anche per il detective Hays. È forse questo ciò che vuole significare il discusso flashback dell’ultima puntata in cui lo vediamo tornare nella jungla vietnamita. Nel caso Purcell (è infatti la sua spalla a preoccuparsi delle alleanze), nel distruttivo rapporto con Amelia e i figli, Hays non ha mai smesso di parlare con i suoi fantasmi, né di essere quel ricognitore solitario della guerra; un cacciatore.

E come se finora non fossero bastati i motivi perché la serie ci facesse rimanere sconvolti, ci scopriamo parte di un detective tale che ha boicottato persino la possibilità della soluzione. Sette sofferte puntate passate a farsi domande sul caso, ma soprattutto su molti aspetti della vita privata di Hays, hanno portato ad un finale tutt’altro che consolatorio. Ma la parola fine non esiste se il tempo è niccianamente un cerchio. Non sapremo mai se la mente del detective fa davvero cilecca davanti a Julie Purcell; fatto sta che Hays è ad un passo dal trovare le risposte al caso che gli ha rovinato la vita ma non riesce a ricordare il motivo per cui ha guidato fin lì. E non sapremo mai com’è morta Amelia. Né la verità sul difficile rapporto fra Hays e sua figlia.

È come non potersi liberare di una zavorra, nemmeno quando si scopre, nel giro di qualche minuto, che tutto il caso Purcell non è stato che un enorme incidente, come quelli dell’ultimo film di Lars Von Trier. La morte di Will, la conseguenza di un gioco finito male, il rapimento di Julie, la storia di una principessa che è stata cordialmente invitata a restare nella stanza del castello rosa. È la casa della famiglia Hoyts, i potenti del selvaggio Arkansas, coloro che consumano i drammi della propria vita dietro i cancelli della turris eburnea, come quelli nella villa di Eyes Wide Shut. Il movente delle loro azioni? Una ennesima intricata vicenda di persone straziate dagli eventi della vita, di genitori che perdono i figli di altri che ne hanno e li vendono. La negazione suprema, per gli anziani Hays e West, ma soprattutto per noi al di qua dello schermo, di avere il colpevole che si è aspettato tanto, fra un morso alla madeleine e un altro.

Una storia dalla quale scompare la possibilità del tragico è solo una storia triste. Un’altra storia che ci ricorda della banalità del male.

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