Closcià di Alessandro Tricarico. “L’arte si fa veicolo di un messaggio che arriva al grande pubblico”

by Claudia Pellicano

Sulla parete laterale del cinema Cicolella, al centro di Foggia, campeggia un’installazione artistica che ritrae il volto di Antonio, uno dei tanti senzatetto che gravitano attorno alla stazione. Il murales è un’opera di Alessandro Tricarico, un fotogiornalista che, attraverso il proprio lavoro, intende restituire dignità e visibilità a chi vive in condizioni d’indigenza e marginalità, e destare l’attenzione pubblica sui temi dell’inclusione e della solidarietà sociale.

Tricarico si occupa di migranti da dieci anni e ha all’attivo reportage per L’Europeo e Repubblica. Nel 2013 ha vissuto in Tunisia raccontando le rivolte arabe e lo sfruttamento nelle miniere di fosfato al confine algerino. Tornato sul Gargano, un territorio dove scarseggia l’offerta formativa, ha creato delle proposte come la Scuola Itinerante di Fotografia.

Closcià, il murales di carta di 38 metri di via Montegrappa, si è aggiudicato il quarto posto nel concorso indetto dal MIBACT Il Viaggio di Sinbad – ConTesti Interculturali, intercettando dei finanziamenti provenienti da varie associazioni che puntano alla riqualificazione del territorio. A Foggia spiccano, in particolare, i Fratelli della Stazione, l’onlus che presta soccorso ai senza fissa dimora, promotrice, tra le altre cose, di Scarpa Sospesa, l’iniziativa volta all’acquisto di calzature per i senzatetto. Ogni sera i volontari incontrano i bisognosi che vivono nei pressi della stazione ferroviaria di Foggia, portando loro dei generi di conforto.

L’estate scorsa è accaduto che, durante l’usuale servizio pubblico, alcuni volontari siano stati sanzionati per essersi trovati in stazione senza biglietto. È a seguito di quest’episodio che Tricarico ha deciso di dare il proprio contributo: «Ho scattato la prima foto ad Antonio il 21 settembre, dopo la multa ai Fratelli della Stazione. È occorso del tempo e una serie di combinazioni del caso perché acconsentisse a prestare il proprio volto. Una sera ha perso l’autobus per tornare nella casa in cui alloggia al momento, e mi sono offerto di accompagnarlo in macchina. Quel giorno eravamo entrambi senza documenti e, nel tragitto, siamo stati fermati dalla polizia. L’episodio un po’ rocambolesco ha contribuito a creare tra noi un legame e mi ha fornito l’occasione per raccontagli di me e di cosa mi occupo».

«Antonio è una persona sensibile e istruita, ha studiato all’Istituto d’Arte, si è arruolato in Marina, ed è diventato sottoufficiale. Tu hai avuto modo di conoscerlo in prima persona. Come lo descriveresti?»

All’inizio era una persona schiva, ora si gode il momento e questa nuova popolarità. Qualche giorno fa ha regalato i pochi euro che aveva in tasca a un musicista di strada e per Natale ci siamo scambiati le sciarpe – quella che indosso ora era sua. Inizialmente era restio, è stato il proprietario del Cicolella, con cui ha un’amicizia decennale, a suggerire lui come soggetto. Alla fine è stato lui stesso a proporsi.
Ha un grande rispetto e un riserbo che gli proviene dalla strada, un modo di relazionarsi diverso, non fa mai domande, non mi ha mai chiesto nulla. È forte, ma si è anche costruito una corazza. Parla spesso di riscatto, di futuro, di cambiare vita. Nessuno ha veramente scelto questa condizione, ci si ritrova per una serie di meccanismi, e ci si giustifica raccontandosi che si tratta di una scelta».

«Il volto di Antonio non è il solo a stagliarsi sui palazzi della città. Gli fanno compagnia il Don Giovanni Bosco della Fondazione Jorit e un irriverente bimbo di colore ad opera di Oliviero Toscani. Se spingiamo lo sguardo più in là, a Birmingham troviamo un’altra opera di una poesia assoluta, il murales di Banksy. La cosiddetta streetart può avere un impatto, una valenza comunicativa maggiore rispetto ad altre forme espressive»?

«Io sono una fotografo impegnato nel sociale e da sempre affascinato dai grandi formati, dalle gigantografie, in particolare dalle opere di JR. Installazioni come queste sono vincenti, hanno il pregio di spiazzare, di proporre immagini che si impongono sulla scena. Un servizio giornalistico può diffondere una notizia, ma non fa breccia. L’arte si fa veicolo di un messaggio che arriva al grande pubblico».

Con molto candore, Alessandro aggiunge di aver scelto Antonio perché è bianco e italiano: «Ho dovuto trovare un compromesso e scegliere un soggetto che potesse arrivare il più possibile al cuore delle persone. Avrei potuto ritrarre un immigrato, un soggetto di colore, ma temo che sarebbe risultato più divisivo».

Alessandro Tricarico in uno scatto di Antonio Belardinelli

«Quali sono i più grandi ostacoli o carenze in merito a queste iniziative d’inclusione sociale? Quali potrebbero essere i prossimi passi da compiere»?

«Io non ho risposte, ma non ci si può affidare solo all’associazionismo, dovrebbero intervenire maggiormente le istituzioni. La vita politica deve fare scelte differenti, non può essere influenzata solo dai sondaggi. Bisogna cambiare punto di vista, la retorica, la narrazione».

Mettere in atto progetti concreti che mirino ad andare oltre i vacui attestati d’empatia che leggiamo sui social e permettere a queste persone, che a Tricarico ricordano «i fantasmi della Città Incantata di Miyazaki» di uscire dalla strada dell’invisibilità. Foggia, come molte alte città del meridione, rappresenta un contesto difficile, ma proprio per questo, non può e non deve permettersi il lusso della rassegnazione e la disfatta dello scoramento. È una realtà dove persistono criminalità e degrado, ma dove emergono anche aneliti di civiltà ed emancipazione.

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