“Com’eri vestita?”, gli abiti prima ancora dei corpi delle donne non sono consenzienti

by Antonella Soccio
com'eri vestita

Un tubino, un corpetto, una minigonna scozzese con una vezzosa maglietta rossa con i bottoni a forma di cuore, un pigiama, un abito a fiori, una tuta, un tailleur maschile, dei jeans, un vestitino blu.

 “Com’eri vestita?”

Come mi pare e/o in tutti i modi, che disturbano il patriarcato o che lo blandiscono.

Bellissima, sciatta, adornata, semplice, agghindata, provocante, androgina, muliebre, concettuale o infantile.

“Com’eri vestita?” è la mostra-installazione che, realizzata sulla scia dell’originaria americana, inaugurata qualche anno fa nell’Università del Kansas, espone gli abiti delle donne vittime di violenze e di molestie sessuali. Com’eri vestita? È anche la domanda solita, a cui continuano a rispondere le varie fasi dei dibattimenti giudiziari e a cui ancora le sentenze si adeguano. A nessuno stupratore è stato mai chiesto com’era vestito. Alle donne, rimaste per la cultura patriarcale delle Eve tentatrici, sì.

Sono passati più di 30 anni dall’indimenticabile film con Jodie Foster e Kelly McGillis, ma le donne sono ancora “Sotto accusa”. Oggi più di ieri, per uno strano tentativo di regressione.

Libere Sinergie e Sudestdonne hanno portato anche in Puglia, tra Foggia e Martina Franca, grazie a Rosy Paparella, Franca Dente e Fiammetta Fanizza, una mostra rivoluzionaria ed importante, che consegna agli spettatori e alle spettatrici la vita e il desiderio delle donne, nel rapporto col loro corpo e con la loro sessualità.

La mostra, inaugurata alla Casa dei Diritti di Milano in via De Amicis e organizzata dal Centro antiviolenza ‘Cerchi d’Acqua’, è visitabile fino al 21 marzo, a Foggia un’altra sezione dell’esposizione è stata in mostra al Dipartimento degli Studi Umanistici dell’Unifg. E resterà visitabile fino al 15 marzo.

 “In ospedale con prognosi di 15 giorni, un giornalista mi ha chiesto COM’ERO VESTITA e mio padre l’ha preso per un braccio e l’ha buttato fuori dalla stanza”

“Facevo la domestica e la baby sitter, lui era un padre amorevole e un marito attento. Non c’era posto, mi disse, dovevo dormire nella vasca da bagno. Mi ero appena licenziata e così ho accettato. La moglie era uscita per accompagnare il figlio a scuola. Stavo rifacendo il letto quando mi sono ritrovata con la faccia sul materasso, mi spingeva e mi tirava i capelli, non riuscivo a respirare sotto il peso del suo corpo. Non mi ha detto una parola, muto, mi ha violentata, mi ha picchiata e non ha detto una sola parola”

“Ero salita da lui dopo una bella serata passata insieme, volevamo conoscerci meglio e bere qualcosa. Era un tipo brillante e divertente. All’improvviso ha chiuso la porta a chiave e ha iniziato ad insultarmi, mi ha sputato addosso. Ho reagito cercando di allontanarlo, l’ho pregato di lasciarmi andare, l’ho scongiurato di non farmi del male. Non mi ha ascoltata. Era estate, avevo un vestito blu”.

Sono solo alcune delle testimonianze accanto ai vestiti. Non ci sono volti, l’unico volto è quello di chi non ce l’ha fatta.

Gli abiti, simulacri di una personalità e delle emozioni delle donne stuprate e molestate da mariti, parenti, docenti, passanti, corteggiatori, lasciano il segno in chi guarda, perché espongono le donne ad un altro interrogativo da SuperEgo patriarcale: “come dovrei vestirmi?”, “come devo vestirmi?”, “Come si è giuste per amare?”.

Gli abiti depositano una verità ineluttabile. La gonna o i pantaloni non contano nulla, il “te la sei cercata” è uno sterile pregiudizio sessista, che vuole le donne insieme preda e cacciatrici fatali.

L’abito prima ancora della vittima non è consenziente. E sta lì esposto, nella sua fragilità, nella sua normalità di bellezza violata.  

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