Lidia Croce, la Via Francigena nel segno dell’Arcangelo

by Teresa Rauzino

L’opera fu presentata a Monte Sant’Angelo il 27-28-29 aprile 2007, durante un convegno sulla Via Sacra Langobardorum organizzato dal Parco letterario “San Michele Arcangelo-Gargano segreto” e dalla Comunità Montana del Gargano.

Una grande tela di 10 metri quadri per visualizzare l’epopea della Francigena, ovverosia la Via sacra Langobardorum, il “cammino” verso il Monte Gargano dove nel 490 d.C apparve l’Arcangelo Michele. E’ una delle più belle opere di Lidia Croce.

L’eclettica scultrice canosina, senese d’adozione, sembra aver eletto il Gargano come fonte di ispirazione. Un luogo, il promontorio, denso di inesauribili suggestioni fin dai primi anni del suo esordio artistico: il primo concorso lo vinse con un’opera ideata proprio in questo luogo dove il sacro e il mitico vivono da secoli la stessa dimensione.

Un Gargano “ottimo pubblicista” di se stesso se già dal Medioevo è riuscito a creare un mito “forte”, mai scalfito dalla modernità: quello dell’Arcangelo. L’attrazione che la Grotta di san Michele esercita da lungo tempo sull’immaginario di Lidia Croce non deriva dal mistero di fede, ma dalle opere d’arte presenti in quel luogo “terribilis”.

L’opera che l’affascina da sempre è l’audace architettura sovrastante lo speco naturale: testimonia l’immane opera dell’uomo medievale che, pur avendo pochissimi mezzi tecnici, riuscì a fare questo piccolo miracolo d’ingegno. Ma l’artista, in questa tela, non vuole celebrare il singolo particolare dell’architettura dei santuari della Francigena quanto il mistero di questo infinito peregrinare verso l’Arcangelo. Ha sentito l’urgenza di fissare, in un’opera di grande respiro narrativo e simbolico, il fluire di questa inesauribile forza coinvolgente.

Lidia Croce

Un “cammino” che da Stignano va a San Giovanni Rotondo, attraversando la Foresta Umbra. Si notano inserimenti moderni come le chiese di Padre Pio, quella antica e quella nuova, con arcate in simbiosi. Non sono un anacronismo. Sono il frutto moderno della fede antica… Ed ecco Monte Sant’Angelo: San Giovanni in Tumba con le bifore e il portale che si interseca al grifone di Acceptus. A sinistra il portale di santa Maria Maggiore con le arcate romaniche; l’ultima a punta, è nascosta da un grande libro. Ancora più in alto c’è il Castello, e tante casette a schiera svettanti nell’infinito.

Nel ripetersi in quel modulo all’infinito, si staglia l’equazione della luce. L’ubicazione delle due chiese di san Michele è realistica: c’è quella longobarda a crociera e quella ipogea, sotto la grotta. Qui si vedono gli interni, la torre campanaria, gli eremi. Al centro del quadro, verso il basso, campeggia la Madonna di Pulsano.

L’icona originale è a mezzo busto, ma l’artista l’ha resa intera, inserendola nel vivo della roccia del promontorio. Un’icona contemporanea ispirata a un’icona antica. Due gli Arcangeli presenti nella tela: il primo richiama l’opera del Sansovino, presenza perfetta, bellissima. Lidia Croce non l’ha voluta emulare, il suo riferimento è soltanto uno schizzo. Tutta la sua creatività l’ha riservata al “nuovo” Arcangelo, diamante traslucido, prova dell’artista per una scultura bronzea del Santuario. Un Arcangelo che sovrasta il campanile angioino, prolunga l’ala per tutta la tela per racchiudere, proteggere ad attrarre tutto il fluire del pellegrinaggio non solo nello spazio ma anche nel tempo. Un Arcangelo connotato dal mistero, al di là della possibile cognizione umana, che attrae come un grande magnete diversi campi: infinite personalità, pellegrini di ogni estrazione sociale: poveri, ricchi, stranieri.

Pellegrini che continuano ad affluire ancora oggi sulla Via Sacra: quelli nudi, quelli in ginocchio sulla scalinata sono i più antichi, poi giungono i cavalieri, i longobardi, i re, gli imperatori. Federico II è appena abbozzato con le corone e la croce di cristallo di rocca con la scheggia di legno della vera Croce. Non è solo, c’è una donna con lui, forse Costanza. Dietro lo Svevo, la terza ondata, quella dei pellegrini moderni che arrivano sulle auto, motorizzati. Un fluire di pellegrini e di immagini generanti tante opere d’arte: un rosone, un’arcata, delle crociere. Un capitello esce da un’icona per formare un cavallo, da una zampa di un altro si genera una bifora. I cavalli sono sempre più stilizzati, ma l’artista fissa la sua attenzione su una curiosa scena di vita quotidiana: un cavallo non vuole salire le scale, si rifiuta di obbedire al suo padrone.

Tantissimi i simboli: in alto e in basso Azazel che precipita in fondo alla roccia, il braccio, le mani reggono l’elsa della spada. Il diagramma del DNA ricorda che il demone ha la stessa origine dell’Arcangelo buono, è frutto della creazione divina. Un ossimoro che ritorna. Nella tela prevalgono varie tonalità “celestiali”. Unica eccezione: il verde della Foresta. Gli alberi, stilizzati come capitelli e fusti di colonne, formano una foresta architettonica felicemente inserita nello stile del quadro. Le rocce del promontorio sono a picco sul mare, sfaccettato come una gemma. Tre velieri si stagliano nell’azzurro in rotta per la Terrasanta. Il viaggio verso la salvezza prosegue…

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