Lo spirito ibrido di Archimake e i momenti di pausa dal chiasso urbano con gli scatti di Multiplicity di Alessandro Cirillo

by redazione

Presso gli spazzi Archimake, in via Nicolai a Bari, è in corso la mostra fotografica Multiplicity di Alessandro Cirillo a cura di Tita Tummillo. La personale s’inserisce perfettamente negli spazzi Archimake rivelando la sinergia tra architettura, fotografia, arte e comunicazione voluta e creata dai fondatori dello studio gli architetti Francesco Marella e Sebastiano Canzano. La mostra, in programma fino al 20 dicembre, si struttura intorno all’incipit “Mi vedi? Cosa vedi?”, ponendo la città e le sue forme come un punti di partenza di un’intuizione e di un viaggio alla ricerca di un senso, di una soluzione tra i conflitti, i contrasti e le mutazioni dei corpi e degli spazi senza mai arrivare a una certezza ma rilanciando nuove domande, desideri, dubbi.

In occasione della mostra abbiamo intervistato l’architetto Sebastiano Canzano e il fotografo Alessandro Cirillo.

Sebastiano da dove nasce l’idea di creare lo spazio Archimake e soprattutto di donargli una natura ibrida incrociando architettura, fotografia e arte visiva?

Sebastiano Canzano: Archimake nasce da una doppia considerazione: che il mondo dell’architettura non può più prescindere da un approccio ibrido e multidisciplinare con altre professioni, e che questo approccio deve essere secondo noi visibile e vivo all’interno di un contesto cittadino. Lo spazio in sè è nato intorno al concetto di “atmosfera”, intesa come sincerità di relazione dello spazio con le funzioni che vuole accogliere. È un progetto “liquido”, non improvvisato, altamente tecnologico che si trasforma da coworking settoriale a galleria d’arte o spazio eventi con grande facilità. 

In questo contesto interdipendente Fotografia e arti visive sono centrali per esplicitare la necessità di incrociare spazio privato, lavoro, città, arte e sentimento.

Alessandro la tua mostra s’inserisce perfettamente in questo spazio d’idee. Qual è il tuo rapporto con lo spazio, gli oggetti e la città?

Alessandro Cirillo: Lo spazio, gli oggetti, la città, sono tutti elementi concreti che definiscono le nostre relazioni con il mondo, con gli altri esseri viventi, con noi stessi. Prendiamo come esempio lo spazio Archimake in cui è allestita, in questi giorni, la mia mostra. Senza questo spazio, che si è fatto luogo, io e Sebastiano Canzano forse non ci saremmo incontrati o la qualità del nostro incontrarci sarebbe stata diversa. Poi in Archimake, sono confluite le idee che ne hanno determinato la qualità attuale attraverso scelte molto ponderate riguardo al suo arredo, ai materiali, alla gestione del tempo di lavoro e di quello libero ecc. E il rapporto di quello spazio con la città è stato determinato infine anche dalla scelta dei due titolari di aprire all’arte e al pubblico quello che di fatto è uno studio di architettura.

Che cosa cerchi o ti sorprende quando scegli o trovi un soggetto?

A.C: Fotografare è per me una forma di incontro, è un toccare e un lasciarsi toccare dal mondo. Io per lo più trovo certe situazioni e le fotografo quando sento che quelle situazioni hanno qualcosa da dirmi, hanno una sorta d’identità che ha voglia di essere guardata e che m’interroga. La sorpresa non è necessariamente legata a qualcosa di comunemente considerato straordinario. Nel film American Beauty vediamo in una scena una busta di plastica bianca, una comunissima busta da supermercato, che il protagonista ha trovato per strada e che ha filmato mentre il vento la faceva danzare nell’aria invernale e contro uno sfondo di saracinesche chiuse e di foglie cadute per terra. Lui la pensa e la sente come se la busta fosse una bambina che lo supplica di giocare con lei e la filma per quindici lunghi minuti. In quei minuti, durante tutto quel tempo, il reale smette di essere solo qualcosa di usuale e concreto e il tempo smette di essere neutro rispetto al proprio scorrere. Ecco, ovviamente nella maggior parte delle volte noi siamo presi da tutta una serie di problemi più o meno importanti, quindi non guardiamo con attenzione tutto quello che ci sta intorno ma, quando ci riusciamo, quando siamo nella giusta disposizione d’animo, possiamo riconoscere l’esistenza di una realtà altra, in cui anche una comunissima busta di plastica bianca può invitarci per qualche minuto a dimenticare i nostri affanni quotidiani e a farci sentire e vedere altre dimensioni, altre possibilità di senso del nostro stare al mondo.

Sebastiano la fotografia nasce parallelamente all’espansione delle città dove i vari stili architettonici hanno mostrato via via la ricchezza culturale e la complessità delle società che li vivono. Secondo te quanto la produzione d’immagini che ha caratterizza il secolo scorso ha influenzato la visione e la costruzione degli spazzi e quanto le città con i suoi cambiamenti hanno influenzato la ricerca visiva delle immagini?

SC: È una domanda complessa, soprattutto fatta in questo periodo dove ieri è già passato remoto e la tendenza in tutti i settori è l’accelerazione. Oggi tra l’altro la dinamica è di creare spazi sempre più flessibili, capaci di assecondare anche l’imprevisto. In questo contesto la fotografia si è aperta alla comunicazione continua, anche all’illusione, si sta adattando ai tempi.  Per quanto ci riguarda, con questa mostra di Alessandro, vorremmo che mantenesse da un lato la calma e l’occasione della stampa fisica, dall’altro che possa comunicare livelli di lettura sempre differenti che interagiscono con il visitatore e la sua esperienza. Non a caso abbiamo coinvolto Tita Tummillo per la curatela. Tita incarna perfettamente lo spirito ibrido di Archimake. É regista, attrice, artista trasversale capace di fondere tutte le arti e di cogliere ed esaltare le potenzialità del nostro.

Sebastiano cosa pensi della necessità sempre più pervasiva delle istallazioni visive di comunicare con lo spazio architettonico e con le città?

SC: Lo spazio Archimake è stato appositamente inserito in un contesto urbano al limite tra due quartieri della città di Bari, il Murattiano e il Libertá, in grande contrasto stilistico e sociale tra loro.  È uno spazio trasparente per scelta, accessibile 24 ore su 24, che già in sè può essere considerato un installazione all’interno della città per il suo carattere innovativo. La funzione espositiva come dicevo, non è improvvisata. Abbiamo rinunciato a postazioni di lavoro per fare sì che le opere potessero respirare e interagire con lo spazio mantenendo intatto l’equilibrio tra le funzioni che ospita.

Alessandro mentre leggevo le tue riflessioni e osservavo le tue opere sulla tua pagina web, mi ha sorpreso e fatto riflettere questa tua capacità e ricerca di costruzioni di silenzi attraverso lo scatto di una foto. In una città in continuo movimento cosa ti permette, oltre al mezzo fotografico, di catturare il silenzio e cristallizzare il movimento, il tempo?

AC: Sembra quasi una contraddizione il fatto di accostare il silenzio alle città. In un certo senso le due cose non convivono molto spesso. Viviamo in città rumorose, in cui è davvero difficile trovare isole che sappiano regalarci momenti di pausa dal chiasso urbano. Certo di notte la dimensione uditiva di una città muta completamente il nostro stesso modo di percepirla, fatta eccezione per alcune grandi metropoli in cui anche di notte i livelli sonori sono elevatissimi. Ma il silenzio che io intendo in senso fotografico trova invece la sua massima espressione proprio negli spazi urbani più ferventi, più caotici. È una predisposizione all’ascolto di voci che sono meno potenti di quelle delle auto e dei loro motori e clacson o di quelle che si possono sentire in un mercato ortofrutticolo. Si tratta di una forma di silenzio che abita dentro di noi e che ci mette in grado di ascoltare le voci “minori” (che non significa meno importanti, anzi) che altrimenti si perderebbero e di fatto si perdono, nel trambusto generale. E la fotografia ha di per sé la capacità di sottrarre al rumore di fondo quelle voci fragili ma così seducenti. Io amo molto la lentezza. Mi piace camminare senza meta, persino nella mia città, in cui cerco di perdermi pensando di essere in un luogo lontanissimo da casa mia. Oppure sedermi al tavolino di un bar e prendermi un caffè e semplicemente stare fermo a guardare il mondo che si muove più o meno freneticamente. Quei momenti sono molto importanti anche quando non ho con me una macchina fotografica.

Questa tua ricerca, ai confini dell’immateriale e del non definito, ti permette però di creare un nuovo mondo, un nuovo tempo e movimento all’interno dell’immagine.

AC: Le immagini sono rappresentazioni del mondo, sono altri mondi, sono l’incontro di quello che noi ci portiamo dentro con quello che è altro da noi. Per quanto documentaristica e apparentemente “oggettiva” possa essere una fotografia essa avrà sempre dentro di sé l’impronta di chi l’ha presa, di chi l’ha scelta tra le altre. Le fotografie hanno anche una caratteristica di tipo archeologico. Sono come tessere che, una volta messe insieme, formano una specie di mosaico. Quando guardiamo qualcosa che ci colpisce e ci attrae possiamo affermare, con quasi assoluta certezza, che in quel qualcosa noi in qualche misura ci ri-conosciamo. Ritorna qui ancora l’idea del fotografare come una forma d’incontro. Le fotografie, quelle slegate da precisi fini commerciali e dunque costruite a tavolino, sono sempre la somma dell’atto di guardare e della disposizione a lasciarsi guardare. Nascono tra due entità e ne costruiscono una terza e, attraverso lo sguardo di coloro che le osserveranno su una parete, su un libro o su un monitor, tante altre. In fotografia, come forse in nessun’altra forma di rappresentazione, il rapporto con la realtà è un rapporto di necessità. Nonostante questo, possiamo affermare che nessuna fotografia si possa accreditare il “merito” di aver ri-prodotto in modo assolutamente fedele quel pezzo di reale che pure è stato necessario per la sua produzione. La fotografia è un indizio tra gli altri e spesso uno degli indizi più insidiosi. Quindi ogni fotografia è una post-produzione del mondo, un nuovo mondo con caratteristiche proprie. Ma è davvero un discorso molto lungo che sarebbe bello approfondire seduti a un tavolino di un bar.

Cosa pensate del movimento all’interno delle superfici architettoniche, del movimento della città riflessa all’interno dei palazzi come se questi fossero degli schermi?

AC: È molto bella l’idea di pensare ai palazzi come se fossero schermi. In alcune architetture contemporanee lo sono per davvero e sono in grado di produrre illusioni molto realistiche e quasi ipnotiche. Ricordo che una volta durante una lezione universitaria ci si pose la classica domanda su cosa dovesse intendersi per architettura. Domanda semplicissima cui è davvero complicato dare una risposta univoca. E infatti una risposta univoca non c’è. Ci sono piuttosto le cosiddette correnti di pensiero in merito. Di certo però possiamo affermare che una delle caratteristiche di un’opera di architettura è quella di interagire con il luogo e con coloro che lo abitano o lo attraversano. Le architetture sono oggetti molto complessi e la loro complessità deriva proprio dal fatto che esse non si esauriscono nelle varie forme di rappresentazione con cui vengono comunicate ma, prima o poi (in alcuni casi mai e in alcuni casi è un bene) diventano presenze all’interno dello spazio e del tempo. In tal senso la responsabilità di un architetto è altissima. Sono convinto che le immagini fotografiche delle architetture, il modo di rappresentarle, possa essere parte integrante non solo di una di verifica della bontà o meno del progetto, ma anche della stessa fase progettuale. Nella mia serie di fotografie che ho intitolato “Città come intersezione” ci sono molte immagini che raccolgono la sfida di una realtà che si riflette su sé stessa proprio attraverso gli elementi che la compongono, gli edifici appunto.

SC: Trovo il riflesso, un’occasione meravigliosa, una simmetria inaspettata e regalata ai nostri occhi che possono immergersi in un mondo parallelo. I vetri delle auto, le finestre e la vita nei palazzi di fronte, le pozzanghere, il mare, ci regalano spettacoli sempre nuovi e stimolanti da cui possono partire altre riflessioni e soprattutto un modo nuovo e diverso di vedere il mondo e la realtà che ci circonda.

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