Shadi Fathi, la bambina che non voleva morire sotto le macerie e l’universo sonoro della guerra

by Paola Manno

Ho imparato a suonare durante la guerra, sotto bombardamento. C’erano giorni in cui le lezioni venivano interrotte continuamente. Ci fermavamo, andavamo con il maestro e gli altri bambini al rifugio, aspettavamo la fine delle incursioni, poi ritornavamo e ricominciavamo. E di nuovo, ricominciavamo: tre, cinque, dieci volte. I miei maestri mi hanno trasmesso degli insegnamenti che non hanno prezzo, delle competenze preziosissime. Hanno trascorso molto tempo insieme a me, tempo che hanno tolto alle proprie famiglie, e in tempo di guerra questo ha un significato preciso.  Mi hanno insegnato la musica e non sapevano nemmeno se sarei sopravvissuta, se un giorno avrei suonato, se sarei diventata una musicista. Ecco, per questo la mia musica non fa compromessi: ci sono tante persone dentro di me. Sono consapevole di questa ricchezza che mi è stata trasmessa.

Shadi Fathi nasce a Teheran da una famiglia curda, è una bambina che sapeva che voleva vivere, che non voleva morire a 10 anni sotto le macerie del terribile conflitto tra l’Iran, il suo paese, e l’Iraq, una guerra che ha mietuto oltre un milione di vittime. Impara a suonare il setar, facendo suo il repertorio classico.

L’Iran è un paese pieno di poesia. In Iran la gente conosce il potere delle parole. I bambini imparano da subito che le parole hanno un peso. Anche le canzoncine dell’infanzia, quelle che si cantano ai bambini, non sono mai leggere, hanno significati importanti. Sin da giovanissimi gli iraniani imparano la poesia classica e questo è importante perché permettere loro di esprimersi grazie a molte metafore. La poesia è un modo per dire loro opinioni senza prendersi tutta la responsabilità, perché in fondo, quei versi, non li hai scritti tu.

Negli anni, continuando a studiare, Shadi è diventata solista di musica classica persiana, nonché un’attenta studiosa; decide di trasferirsi a Marsiglia, dove attualmente vive ed opera. Oggi mi racconta il suo nuovo progetto artistico.

“C’è tutto un universo sonoro che ruota attorno alla guerra. Il rumore di una bomba che cade è basso mentre quello degli aerei è ultra acuto, rompe il muro del suono. Ci sono dei suoni che nella nostra vita oggi non esistono più, ma che la musica permette di ritrovare, di raccontare. Oggi, dopo 30 anni, mi sento pronta a tirarli fuori, l’idea nasce da qui.”

Il progetto si chiama AZADI ed è un’opera artistica in fieri, che sta prendendo forma grazie alla collaborazione artistica con Ninfa Giannuzzi e Valerio Daniele, due musicisti incontrati durante i suoi viaggi tra Marsiglia ed il Salento. Nella formula dello spettacolo, l’artista Egidio Marullo si aggiungerà con una performance di live-painting.

Ho avuto il piacere -e la fortuna- di ascoltare un “assaggio” di Azadi la sera del 5 gennaio, a Calimera, presso la sede dei Kalimeriti. Non si tratta di una performance, la Shadi ci tiene a precisarlo- non nel senso che in genere si da a questa parola, ma è – la sua musica, un atto di verità.

 “I miei ricordi danzano tra i suoni dei bombardamenti e la musica classica persiana, tra il passaggio degli aerei da combattimento e la poesia, tra dichiarazioni di guerra o gli annunci di « cessate il fuoco» e la letteratura. Io credo che non si possa fare molto contro persone come Trump, ma portare avanti dei progetti come questo vuol dire parlare senza violenza. Mi riferisco alla coscienza, che non è una cosa politica. Noi siamo tre musicisti che cantano su un palco e che sperano in una presa di coscienza collettiva, ecco.”

Azadi è tutto questo insieme, è l’universo sonoro della guerra – di ogni guerra -parallelamente al canto e alla musica, alla poesia e all’amore. Non è un lavoro, questo, con scopo documentaristico: ascoltiamo, insieme a canzoni della tradizione persiana, a registrazioni sonore durante la guerra, delle parole, voci e discorsi che “serenamente, con naturalezza, annunciano alle persone che le loro vite saranno distrutte” dice Shadi. Valerio Daniele, chitarra baritona, live electronics, direzione musicale, arrangiamenti, interviene su queste voci per distorcerle, per dar loro forme nuove. Ascolto con trasporto un canto persiano, versi d’amore che si concludono con la voce di Ninfa Giannuzzi che, in griko, canta dei versi dell’apocalisse.

“Vorrei che alla fine venisse fuori questo: la bellezza può, deve sopravvivere.”

Perché il griko?

“Il griko è una lingua quasi in agonia, una lingua minacciata, è una lingua sopravvissuta. Per me questa lingua è come una persona, come un bambino sconosciuto nel buio dei rifugi che lotta per vivere. Sappiamo che in una piccolissima zona del mondo si parla una lingua che non sappiamo se sopravvivrà, ma che si batte per sopravvivere. Per questo, il griko. Non nascondo che la prima volta che ho sentito il griko, mi sono innamorata del suo suono!”

Una lingua resistente, riscoperta, che oggi in alcuni paesi del Salento si studia con passione, in mezzo a tutti quelli che studiano inglese o cinese. E’ questo il dono più prezioso della serata a Calimera: la dimostrazione che i piccoli atti di bellezza e coraggio hanno diritto ad esistere, emozionano, ci rendono migliori. Sulle note di “Aremu rindineddha” il numeroso pubblico prima sussurra, poi canta con orgoglio “Aremu pea paissia/ peu topu echi diavemmena/ pu en’echi ghenomena/ ti foddea isù” (Se avessi saputo, rondinella,/ che passavi vicino alla mia terra/ quante cose/ti chiederei di dirmi). Si è ancora vivi, quando qualcuno canta il tuo nome.

Ninfa Giannuzzi
Valerio Daniele

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