Thalassa, la grande mostra del MANN sulle meraviglie dell’archeologia subacquea

by Michela Conoscitore

Parlando di patrimonio culturale sommerso, la felicità e l’orgoglio di essere i depositari di tanta ricchezza non ci devono far dimenticare della grande responsabilità che abbiamo nel custodirlo, mantenerlo e divulgarlo

I visitatori sono accolti da una frase di Sebastiano Tusa, all’entrata della mostra Thalassa, meraviglie sommerse dal Mediterraneo, ospitata nello scenografico Salone della Meridiana al MANN, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Visitabile fino al 9 marzo 2020, l’esposizione è la prima grande summa sull’archeologia subacquea organizzata finora in Italia, che vede proprio in Tusa, archeologo, docente universitario e assessore della regione Sicilia, scomparso nel marzo scorso nell’incidente aereo della Ethiopian Airlines, insieme a Paolo Giulierini, direttore del MANN, Salvatore Agizza, Luigi Fozzati e Valeria Li Vigni, tra i curatori della mostra. L’allestimento dei quattrocento reperti, provenienti da varie località bagnate dal Mediterraneo, si ispira ad una nave, che all’entrata nel salone, idealmente, supera le colonne d’Ercole per avventurarsi in un viaggio tra i tesori che il mare nostrum ha custodito per secoli, sui suoi fondali.

Prima degli dei dell’Olimpo, c’era una volta Thalassa: la mostra, infatti, porta il nome dell’antica divinità greca del mare. Al principio di tutto, essa, portatrice benefica e feconda dalla preponderante personalità femminile, diede origine con Ponto, suo corrispettivo maschile, all’intera popolazione marina. Come una madre premurosa ha accolto nelle sue profondità i numerosi tesori, che nel corso dei millenni, si sono accumulati dopo naufragi e calamità naturali.

Napoli e la Campania, la Sicilia, tutto il Meridione, incluse Liguria, Toscana e Sardegna sono raccontati attraverso le testimonianze archeologiche che narrano non soltanto di commerci e scambi culturali tra le varie popolazioni del Mediterraneo, ma svelano anche aspetti del quotidiano, la vita di bordo, la passione che gli antichi avevano per il mare, e l’intima connessione che legava città come Neapolis alla sua primaria fonte di sussistenza. Scoperte rese possibili dall’evoluzione della disciplina: si comprese, a partire dagli anni Cinquanta, che lo stesso metodo di ricerca attuato sulla superficie terrestre, doveva essere utilizzato anche per gli scavi marini. Ultimamente, poi, le nuove tecnologie come i side scan sonar e multibeam, oppure i robot filoguidati hanno permesso di raggiungere i reperti fino a quattromila metri di profondità.

La casualità, a volte, è la caratteristica che accomuna vari ritrovamenti subacquei: a partire dai Bronzi di Riace, giungere al relitto di Antikythera, nell’Egeo, scoperto da pescatori di spugne durante i primi del Novecento, fino all’area archeologica sommersa di Baia e dei Campi Flegrei, col Portus Iulius di Pozzuoli, senza dimenticare il relitto di Marzamemi in Sicilia. Spetta agli archeologi subacquei ricondurre quella casualità al proprio contesto originario di appartenenza; precursori in Italia della disciplina furono Nino Lamboglia, Amedeo Maiuri, Pier Nicola Gargallo e Vincenzo Tusa, padre dello scomparso curatore di Thalassa.

Procedendo nel percorso espositivo, si possono ammirare busti di statue, rosicchiate dagli organismi marini e sottratte al loro lavorio fortunatamente dagli archeologi, provenienti dalle acque di Villa Rosebery e dalla Gaiola, oppure la meravigliosa statua di Nereide di Posillipo. Continuando, la cascata di piccole lucerne ritrovate a Baia, numerosissime anfore, reperto per eccellenza dell’archeologia subacquea, il cui contenuto spesso era il garum, la celebre salsa prodotta nell’antica Roma, e in Thalassa possiamo vedere esposte quelle provenienti dalla famosa bottega in via dell’Abbondanza, a Pompei. Inoltre, spazio anche all’otium vista mare, infatti alcuni affreschi provenienti da Pompei ed Ercolano, che raffigurano ville lussuose sulle scogliere prospicienti le coste vesuviane, testimoniano come i paesaggi marini siano, da sempre, quelli che conciliano maggiormente non solo il relax ma anche il ‘raccoglimento’ intellettuale, tanto caro agli antichi romani.

Il viaggio su Thalassa si conclude con l’Atlante Farnese, una delle sculture più importanti dell’omonima collezione, ereditata da Carlo I di Borbone, e ora custodita al MANN; gli antichi marinai possedevano, come guide durante le navigazioni per mare, soltanto le stelle. La statua raffigura il titano Atlante che sorregge il globo terrestre, su cui sono riportate le posizioni delle costellazioni così come osservate da Ipparco di Nicea, tra il 125 e il 55 a.C.

Quando si lascia il Salone della Meridiana, con le suggestioni ancora non sedimentate della mostra, nella mente tornano i versi di Che il Mediterraneo Sia di Eugenio Bennato, e la voglia di tornare a tuffarsi nel mare di storia offerto ai visitatori da Thalassa:

Che il Mediterraneo sia

quella nave che va da sola

tutta musica e tutta a vele

su quell’onda dove si vola

tra la storia e la leggenda

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