C’è una doppia metodologia (quasi eloquente) sfociante in pittura scorgendo le opere di Vieri Sorrentino, artista foggiano (di puro talento) con neanche tre decadi di vissuto sulle spalle. Una “astratta”, l’altra surreale-fantastica. La prima – secondo quando afferma l’artista – rientrante nel canone reale della realtà ad essa cinta (vedi l’opera Natura Galleggiante in copertina). – Nonché – la seconda, a quella solo apparentemente distante e distaccata del “sogno”, che si fa e diventa al tempo stesso ambizione, ricerca, spirito sociale, nuova architettura e vivibilità urbana.
L’artista, che dopo la maturità scientifica si diploma all’Accademia di Belle arti di Bologna, decide così di seguire la sua indole, dedicandosi alla sua vena più confacente (appunto) al suo vissuto di pittore (in pieno stile “fiammingo”), con adesione quasi ascetica. Una specie di missione nella ricerca “ripartitrice” fondata su uno dei testi cardini della letteratura artistica del ‘900: “Lo spirituale nell’arte” di W.Kandinsky. Ed in tal senso, è come se (ad esempio) l’incipit del testo fungesse difatti alla descrizione di Tal Medesimo artista ad appurarne meglio la sua visione : “Non una dichiarazione poetica né un trattato di estetica né un manuale di tecnica pittorica, ma piuttosto un saggio di profezie laiche e di filosofia dell’arte, meditazioni metafisiche e segreti artigianali che sovrappongono presentimenti di un arte nuova”… Proprio come in egual misura ed esecuzione Vieri, trasforma la sua indole mnemonica in “imprinting” che traduce su tela o disegno come “eventualità” di un “mondo nuovo” (alla stregua del viaggio come metafora a noi più prossima, concreta ed ecosostenibile non già nel suo ruolo trascendente).

E altresì, che seppur di qualche taluna essenza estetica bisognerebbe parlare, è lo stesso Sorrentino che non indugia scetticismo al riguardo, definendo uno stile in particolare inerente la sua arte, come un limite, quasi un intruso. Così come – afferma – “il concetto di affinità tra opere non è qualcosa di esterno (spesso intrecciato al materialismo superficiale del presente), ma un amalgama con la radice delle radici nel contenuto mistico dell’arte”. E Tra le “tendenze estetiche” più in voga nella sua arte, certamente un ruolo fondamentale lo rappresentano – dice sempre l’artista- “le metropoli ricche di colori dalle tante sfumature sfavillanti intessute di natura…dipinte con l’ambizione ed il sogno di mettersi in gioco ad ogni tela realizzata, attraverso un processo volto a stravolgere la concezione classica dell’architettura e delle metropoli, quintessenza dell’ecologia che chiamo Città Foresta. Caratterizzata da un’architettura vivente ricca di flora e fauna con stimoli sensoriali (come il profumo dei fiori) che addolcisce chi le popola. In tal senso del resto hanno già preso le mosse Gaudì, l’architetto viennese Hunderwasser ed un altro architetto di nome Callebaut che sta ancora lavorando in questa direzione. Direzione su cui anche se ci si sta dirigendo attualmente a piccoli passi credo sia la giusta base di partenza in cui si debba credere e perseguire maggiormente”.

Il suo immaginario creativo è parallelo ad un “flusso di coscienza” simulante “non luoghi” (ritrovati), in cui mossi da una percettibilità cara alla gesta delle Ombre Cinesi del pre-cinema, l’osservatore catatonico reca egli stesso parte in se e di se ad una porzione o ad una parte della composizione. Erga omnes, come passeggero della propria mente (proiettato) in una linea metro “underground” o sopraelevata, a spasso tra connessioni di immagini e luoghi fantastici, propriamente a suo agio tanto all’aperto tra palazzi della metropoli che al “chiuso”, nel salotto che abita la stessa, avanti a un caffè.

Si vorrebbe concludere questa escursione sensoriale tra parte di alcune opere di V. Sorrentino, additandone una immagine più certa, meno evanescente della portata di un sogno, allora riportandoci ad una parte di un brano presente in “Le città invisibili” di Italo Calvino (Le città e il nome), ne trarremmo di certo un nome
[…] “Se dunque volessi descriverti Aglaura tenendomi a quanto ho visto e provato di persona, dovrei dirti che è una città sbiadita, senza carattere, messa lì come vien viene. Ma non sarebbe vero neanche questo: a certe ore, in certi scorci di strade, vedi aprirtisi davanti il sospetto di qualcosa di inconfondibile, di raro, magari di magnifico; vorresti dire cos’è, ma tutto quello che s’è detto d’Aglaura finora imprigiona le parole e t’obbliga a ridire anziché a dire. Perciò gli abitanti credono sempre di abitare un Aglaura che cresce solo sul nome Aglaura e non s’accorgono dell’Aglaura che cresce in terra. E anche a me che vorrei tener distinte nella memoria le due città, non resta che parlarti dell’una, perché il ricordo dell’altra, mancando di parole per fissarlo, s’è disperso”.
Filippo Mucciarone