Warhol, Haring, Basquiat: le opere delle tre stelle della Pop Art in una mostra a Bologna

by Claudio Botta

Sta avendo grande successo la mostra (oltre 15mila spettatori nei primi giorni), inaugurata l’11 marzo e in cartellone fino al 18 giugno al Next Exhibition Museum presso Palazzo Belloni a Bologna, su “Warhol, Haring, Basquiat- Art, Music and Fashion”, con la produzione griffata Next Exhibition e la cura di Edoardo Falcioni, che vede per la prima volta insieme in un unico allestimento il padre della Pop Art e i suoi due figli spirituali. Tre figure che hanno rivoluzionato non solo l’arte contemporanea, ma il costume e la società partendo dalla New York anni ’80 centro di un mondo sovraesposto e in continua fibrillazione, accomunate da umili origini, una vertiginosa ascesa oscurata da nubi improvvise e un tragico destino, che ha impedito loro di raccogliere i frutti – soprattutto a livello economico – della loro creatività e di godere pienamente di un meritato riscatto, in particolare rispetto a pregiudizi odiosi scardinati pagandone però un prezzo altissimo.

Per apprezzare le opere esposte nei loro contenuti e non semplicemente valutandone l’impatto estetico, e per approfondire le rispettive biografie, vi consigliamo vivamente la visione di un film, Basquiat, uscito nel 1996 e sceneggiato e diretto da un altro figlio di quell’epoca straordinaria, Julian Schnabel, un delicato omaggiato a un amico fragile e dal talento incredibile, e al suo rapporto così intenso con un genio tormentato, che ha prodotto dei picchi difficili da emulare e raggiungere. Un gioiello con un cast stellare, da Gary Oldman nei panni dello stesso regista trasfigurato nel personaggio di Albert Milo, a Benicio Del Toro, da Willem Defoe a Christopher Walken, da Dennis Hopper a Vincent Gallo, da Courtney Love (la vedova di Kurt Cobain) a Tatum O’ Neil, a Claire Forlani. Ma i protagonisti sono Jeffrey Wright, straordinaria la sua performance nel primo ruolo importante della carriera e impressionante la somiglianza col vero Jean Michel Basquiat, e David Bowie, cui bastano una iconica parrucca argentata e un paio di occhiali per trasformarsi in un Andy Warhol semplicemente perfetto, la stessa mimica, la stessa postura, lo stesso timbro vocale (le loro vite si erano incrociate davvero, più volte, prima con il tentativo di Bowie di ricreare a Londra nel 1969 una Factory britannica, legando arte e musica in modo sempre più simbiotico per arrivare a una fusione in grado di riplasmarle entrambe; poi con il brano Andy Warhol inciso da Bowie e incluso nell’album Hunky Dory del 1971, un ironico omaggio che il diretto interessato ha potuto ascoltare in anteprima  a New York, in occasione della trasferta della rockstar inglese per firmare il contratto con la Rca, mostrando uno scarso apprezzamento: «Lo detestava, assolutamente», ricordò nel 1997, «era imbarazzatissimo, credo che pensasse che in quella canzone io lo buttassi giù, ma non era affatto quella la mia intenzione, era piuttosto una sorta di ironico hommage che gli dedicavo. La prese veramente male, ma gli piacevano le mie scarpe»).

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Anche la straordinaria colonna sonora offre un’immersione totale nell’epoca ed è parte integrante del film, non semplice sottofondo e accompagnamento: da Iggy Pop ai Rolling Stones, da Charlie Parker a Miles Davis, da Tom Waits a Van Morrison (alle prese con una cover di Bob Dylan), dai Pogues ai Public Image Ltd, da Leonard Cohen a John Cale, per citare solo alcuni passaggi e paesaggi sonori suggestivi evocati. La scena d’apertura che apre già uno spaccato esaustivo su sogni, ambizioni e aspirazioni, un bambino ripreso di spalle mentre cammina insieme alla madre lungo un corridoio, per arrivare davanti a Guernica di Picasso. Un salto temporale immediato, e uno sfacciato ventenne esce da una scatola di cartone, improbabile abitazione ricavata tra i cespugli di un parco: la vita da homeless fonte d’ispirazione per i graffiti firmati – bombolette spray e pennarello – con l’acronimo SAMO (da Same old shit, Solita vecchia merda), frasi apparentemente slegate, dettate dall’urgenza di esprimersi in modo originale e personale. L’inizio di un racconto che risparmia dettagli personali complessi a favore di uno sguardo benevolo verso un artista destinato alla fama internazionale ma osteggiato perché di colore (anche se nato a Brooklyn, da padre haitiano e madre di origini portoricane), e di un’efficace descrizione del mondo dell’arte negli anni Ottanta, dominato da ricchi snob alla ricerca di nuovi prodotti da collocare sul mercato e nuovi business da alimentare.

La passione per la musica, e la band Gray formata con amici d’infanzia (tra cui Vincent Gallo, che nel film interpreta sé stesso). L’incontro casuale con Andy Warhol e il suo gallerista Bruno Bischofberger (interpretato da Dennis Hopper), a cui vende in un ristorante di Soho due cartoline da lui decorate. Un amore teneramente sbocciato, e l’attenzione crescente di galleristi e galleriste à la mode, l’accesso a locali esclusivi come il Club 57 e il Mudd Club (frequentati anche da Madonna, con cui avrà un flirt durato qualche mese, e Keith Haring). Il rapporto con Warhol che diventa paritario e altalenante, da padre e figlio ma anche tra due anime affini e differenti, dalle diversità che diventano complementarità: le immagini infantili abbinate a parole, inserite nelle tele per la prima volta da Basquiat come elemento integrante, come sfondo, cancellate o esaltate, sono il contraltare dell’immaginario di Warhol popolato da figure, volti, oggetti, e daranno vita ad oltre cento opere dipinte a quattro mani, e a una mostra comune annunciata da un manifesto con entrambi  presentati come protagonisti di un incontro di boxe (grande passione di Jean Michel).

Ma un’infelicissima recensione apparsa nel settembre 1984 sul New York Times, in cui Basquiat viene ingenerosamente definito «la mascotte diWarhol», alimenta e produce una rottura che sarà dolorosa per entrambi, e spingerà sempre più il giovane nel baratro della tossicodipendenza da eroina. La morte improvvisa di Warhol nel 1987, in seguito a improvvise complicazioni dopo un intervento mal riuscito alla cistifellea, renderà impossibile una ricomposizione che forse sarebbe riuscita a salvare entrambi. E l’overdose che pochi mesi dopo, il 12 agosto 1988, porterà via Basquiat ad appena 27 anni (uno dei tanti belli e dannati del ‘club 27’) era purtroppo un finale annunciato, e atteso da molti addetti ai lavori per fare schizzare alle stelle le quotazioni delle opere. Stessa terribile sorte che sarebbe toccata ad Haring due anni dopo, stavolta per Aids. Il finale del film è un requiem dolcissimo e struggente, che alimenta rimpianti e un senso di sconfitta collettivo, non semplicemente personale e individuale.«So come ci sente a essere attaccato come artista. Come ci si sente a essere giudicato come artista. Cosa vuol dire avere fame e notorietà. So cosa vuol dire essere accusato di cose che non si sono mai fatte o dette. So come ci si sente a essere apprezzato come pure denigrato», le parole di Schnabel all’epoca. Vive e attuali più che mai.

Buon film, buona mostra.

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